Lo sognavo da tempo, anche in maniera fin troppo astratta, di fare un viaggio in bici. Per viaggio ovviamente intendo un qualche itinerario che comporti come minimo una notte fuori e che sia abbondantemente sopra i 200km. Inoltre, subendo da sempre il fascino delle corse classiche, il viaggio non doveva esser circolare, arrivando e partendo da casa, ma lineare: dal punto A al punto B.

Negli anni iniziai a comprare, e poi anche rivendere, varie borse da bikepacking, come va di moda dire adesso, testandone capacità e solidità; mi prefiguravo di testare un ventaglio di soluzioni tra gomme ed equipaggiamento che mi mettesse nelle condizioni di affrontare al meglio quello che sarà il non ben definito mi primo viaggio in bici.
Unico punto fermo: la bici da viaggio sarà la mia Zino. Semplice, funzionale, valida su tutti i terreni, comoda e robusta come un telaio in acciaio sa essere, ma proporzionalmente leggera e adatta alla salita, dalla manutenzione e riparabilità accessibile a chiunque (quasi) ovunque e versatile come una bici da lunghe distanze deve essere.

Poi d’improvviso un allineamento astrale di pianeti ed una concatenazione di eventi squarcia le nubi del mio fantasticare e si presenta a portata di mano l’occasione di un viaggio: la via del sale. Per chi non fosse appassionato di montagna, di motociclismo, di fuoristrada a due e quattro ruote e/o di escursioni, racconto brevemente che la via del sale è una antichissima strada che sin dal 1200d.C. veniva percorsa da mercanti, pellegrini, pastori e contrabbandieri (e quindi anche briganti intenzionati a depredare le precedenti categorie) che su quel percorso trasportavano i prodotti della riviera. Ovviamente la faceva da padrone il sale, che era l’oro del medioevo, e pertanto aveva lo stesso valore della moneta sonante con tutte le conseguenze che questo comportava in termini di delicatezza e rischio nel trasporto. La via si snoda sempre sul crinale tra Piemonte, Francia e Liguria, quasi sempre attorno ai duemila metri di quota ed è oggi meta ambita per escursionisti di tutta Europa.

Ed ecco che, complice un campus sportivo di mia figlia, mi si para davanti l’opportunità di fare questo piccolo grande viaggio in due giorni, all’inizio del mese di settembre. Nel lasso di tempo che intercorre dall’idea alla partenza rimbalzano nella mia mente un milione di possibilità e configurazioni per cosa e come portarmi appresso. Devo aver con me il vestiario sia tecnico per i due giorni, sia per dormire la notte, gli attrezzi per tutte le evenienze ed un surplus di kit antiforatura, i caricabatteria del telefono e dei Garmin (sì, due), una buona scorta di cibo e sali per le borracce e, per finire, i classici documenti e soldi per gli imprevisti.
Ora tutto quel materiale dovrà star stipato in 3 borse (manubrio-telaio-sotto sella) ma esser bilanciato, utile ma non superfluo, ma anche previdente e prudente per il classico “non si sa mai”… insomma un bel dilemma!
In qualche modo, ne vengo a capo. Non solo, un paio di giorni prima feci anche una futile prova della bici a pieno carico, pedalando sui drittoni© sterrati del parco della Mandria. Il carico era stabile e questa prova preliminare mi diede un immotivato ottimismo che sarebbe stato smentito, ovviamente nel momento meno opportuno. Ma andiamo con ordine.
Arriva il gran giorno, dopo un provvidenziale cambio dei pattini anteriori, alle 8:30 del mattino mi chiudo alle spalle il cancello di casa, destinazione del primo giorno sui pedali il rifugio don Barbera, a quota 2079m s.l.m..
Le prime dieci pedalate sono qualcosa di unico, frizzante, carico di aspettative oltre che di bagagli. Inizio a lasciare la mia Giaveno per andare in una piccola grande avventura. Sarò indipendente e solo con me stesso e le mie forze. Per questi due giorni e ho intenzione di assaporare ogni instante del viaggio con la consapevolezza che si fisserà in maniera indelebile nella mia memoria.
L’avvio è subito in salita, ma nulla di pesante, la classica colletta di Cumiana che ormai conosco come le mie tasche non mi riserva alcuna sorpresa, tranne qualche auto dei pendolari un po’ troppo frettolosa che mi passa vicino. Sono piuttosto concentrato e fiducioso, in un tempo relativamente breve arrivo all’inizio della prima bella sorpresa: Airasca. Ho infatti intenzione di percorrere integralmente la ciclabile di 20km che da Airasca porta fino a Moretta, in provincia di Cuneo, sulla traccia di quella che era la ferrovia ora dismessa. Il percorso è curato e bellissimo, ci sono addirittura le tabelline chilometriche a scandire un tracciato incantevole, intervallato dagli edifici delle stazioni dismesse che hanno su di me un fascino incredibile, probabilmente dettato dall’essere nipote di un ferroviere ed averne, a mia volta, costruite alcune. Non è reale ma mi sembra addirittura di percepire ancora il profumo (e per me è tale) del catrame con la quale si impregnavano le traversine di quercia, e di sentire l’acre odore delle ganasce dei freni che fischiano all’ingresso di ogni stazione. Le gambe al momento sono dei silenziosi motori che mi permettono di assaporare tutto questo alla velocità di crociera perfetta per non farmi perdere nessuna delle sfumature di quei luoghi.

Entro finalmente nella provincia “granda” e dopo poco il panorama cambia radicalmente. Entro in quello che è il secondo meleto d’Italia, siamo nella prima settimana di settembre e i profumi del raccolto si fanno intensi, i colori rossi delle mele sono perfetti e cedo alla tentazione rubacchiando una mela a bordo strada e rosicchiandola cammin facendo. Succosa e dolce, rende dolci anche i chilometri successivi, mentre vedo le montagne avvicinarsi sempre di più e, nonostante il giorno sia nelle sue ore centrali, sento sulla pelle il calare della temperatura e la frescura tiene costante la mia andatura, quasi dandomi il benvenuto nell’estremo sud del Piemonte. Imbocco l’inizio della valle del Sanpeyre ed un brivido mi percorre la schiena; l’appuntamento con questo leggendario colle è per ora semplicemente rimandato.
Arrivare poi a Limone Piemonte mi dà una sensazione di seconda partenza: ho già fatto 120 km e sono a quota 1000m esatti di dislivello, ma son numeri che poco rappresentano il mio stato d’animo. In realtà mi sento come se avessi appena iniziato a pedalare e percepisco che tutto il bello che attendo da settimane deve ancora venire. Capirò di qui a poco che non mi stavo sbagliando. La cittadina di Limone non è particolarmente accogliente, anzi mi trasmette un che di decadente e di (ovvio) fuori stagione che mi spinge a lasciarmela al più presto alle spalle. Dopo i primi semplici tornanti del col di Tenda nuovo, ecco che una svolta sulla destra si figura come le mie colonne d’Ercole: da qui in avanti sarò davvero solo e potrò contare sull’aiuto delle gambe e della testa, null’altro. La prima parte di salita, su asfalto, è per me micidiale. Avevo sottovalutato in pieno cosa significasse pedalare in salita con le borse cariche: non aveva nulla a che fare con tutta quella che è la mia esperienza ciclistica. Tutto ciò era nuovo e nemmeno piacevole. Sento come una invisibile mano gigante che mi afferra per la schiena e mi tira verso il basso, mentre la mia volontà è quella di andare verso l’alto. L’oscillare della borsa posteriore in perfetta opposizione di fase al mio pedalare “en danseuse” ovvero in piedi, mi costringe ad utilizzare molta muscolatura del busto per gestire la pedalata ed a questo, in tutta onestà, non ero per nulla preparato! La schiena si fa già sentire e non fa altro che aumentare la mia ansia per quello che sto affrontando. Ci andranno parecchi tornanti ed un ridimensionamento dell’andatura per ristabilire una certa calma interiore e per permettermi di godermi in pieno quello che sto facendo, d’altronde questa è la mia vacanza, non una gara!
Arrivo finalmente ad un altro caposaldo del mio viaggio: lo chalet Le Marmotte ovvero la fine dell’asfalto. Da qui in poi saranno circa 100km interamente sterrati da far macinare alle mie ruote, quindi ora non si scherza più. Se prima potevo concedermi qualche distrazione, ora dovrò anche prestare la massima attenzione a scegliere costantemente la linea ideale da seguire sulla strada, evitando buche e sassi smossi. Non dimentico infatti di essere su di una bici da gravel, o meglio da ciclocross, quindi non ho gommoni ed ammortizzatori a perdonarmi gli errori, tutto quello che passa sotto le gomme viene trasmesso al mio corpo senza sconti ed è il prezzo da pagare per aver fino ad ora “galleggiato” soavemente sull’asfalto piemontese. Sono solo altri 20km e poco più di 300 metri di dislivello, ma il loro impegno per superarli sarà inversamente proporzionale alla distanza in sé.

Dopo una prima parte invitante e con qualche tratto in falsopiano di incredibile bellezza, mi accorgo che il panorama cambia nettamente con un prevalere di rocce chiare ed affioranti tutto attorno a me. Ovviamente la strada è fatta di questa roccia frantumata che diventa per nulla facile da pedalare. Per fortuna siamo in un giorno feriale quindi il via vai di moto e fuoristrada è piuttosto limitato e riesco quindi a godere dell’ambiente che mi ricorda alcune ambientazioni, riuscitissime, del viaggio di Frodo e Bilbo nel Signore degli Anelli… quello che ancora non so è che la mia Mordor è ancora ben lontana, ma andiamo con ordine.

Una delle cose che ricorderò per sempre di questo viaggio sono anche gli incontri, ed ecco che si materializza il primo. Essere con una bici da gravel quassù è fatto già di per sé abbastanza atipico, quindi l’incontrare un altro che come me ha fatto la stessa scelta ciclistica porta inevitabilmente a far scoccare un tentativo di dialogo. La figura che raggiungo ed affianco, è quella di un signore in età, diciamo intorno alla sessantina, con una bici di ottimo livello ed un abbigliamento tecnico ineccepibile. Scommetto sul fatto che non sia italiano ed indovino: è un signore svedese che percorre al suo ritmo questa meravigliosa via. Gli chiedo se anche lui soggiornerà al rifugio questa sera e mi risponde con un laconico “hopefully” (n.d.t. cioè: “lo spero!”) e così ci salutiamo, momentaneamente.
La salita inizia a farsi dura e il non avere il contatto visivo con il rifugio fa aumentare la pressione nel dover arrivare entro un tempo utile. In realtà sono in buon anticipo ma c’è sempre quella possibilità di un imprevisto o di un crampo che potrebbe compromettermi il piacere della giornata in bici. Per fortuna tutto questo non accade e con la migliore concentrazione che ho continuo ad inseguire la linea ideale sulla strada bianca (bianchissima in questo caso) e chilometro dopo chilometro arrivo finalmente al rifugio!


Il posto è a dir poco stupendo. Il rifugio DonBarbera è di recente costruzione ma edificato nel pieno rispetto dell’ambiente in cui è inserito. L’accoglienza è da subito fantastica: esser così lontano dalla civiltà ed esserci arrivato con le mie gambe dona al tutto un tocco di avventura che mi riempie di entusiasmo… ma sono comunque stanchissimo! Appena mi assegnano il letto mi cambio e mi metto sdraiato per stendere le gambe ma in un attimo piombo in un sonno profondo, che verrà solo interrotto dal grido della figloletta ai genitori (famiglia con cui condividevo la camerata) che annunciava la cena. Ritrovo a cena il signore svedese, da qui in poi semplicemente Anders, con cui ho una gradevole conversazione (sia santificata la mia conoscenza della lingua inglese). Mi racconta che è al suo primo anno di pensione e finalmente, dopo anni che suo figlio gli aveva raccontato del suo viaggio qui, ha ora modo di godersi il tempo libero pedalando nelle strade più belle d’Europa. Ecco io da pensionato vorrei proprio essere come lui, ancora in forma, spensierato ma desideroso sempre di nuove avventure su due ruote! La cena è ottima, sostanziosa e decisamente proteica. Si conclude con un eccellente liquore al timo serpillo (tipico delle zone montane piemontesi) che ci rilassa e prepara al meglio per la sonora dormita che ci aspetta. Anders mi dice che per domani ha intenzione di prendersela molto comoda quindi non farà colazione prima delle otto, mentre io, a quell’ora ,vorrei già iniziare a pedalare per sfruttare in pieno la giornata. Ci ripromettiamo per lo meno di salutarci e di scambiarci l’indirizzo email.
Il riposo è stato perfetto, la sveglia mi coglie in pieno sogno, ma me ne faccio come sempre una ragione ed inizio a prepararmi. Piccolo inciso; da qualche anno, come alcuni di voi sapranno, sono diventato grande amante della rasatura tradizionale, di conseguenza non potevo certo perder l’occasione di una sbarbata a duemila metri di quota! Kit semplice, essenziale, veloce e totalmente rispettoso dell’ambiente a differenza di quei beceri multilama così tanto sponsorizzati e delle bombolette di schiuma che sono ingombranti e ben poco rispettose dell’ambiente. Fresco e liscio scendo così a far colazione e ritrovo una coppia di ragazzi che avevo intravisto la sera prima. Vedo fuori dalla finestra le loro due bici gravel e mi scatta subito l’interesse. Hanno un ottimo equipaggiamento tecnico, bici molto belle, e stanno già partendo! Senza farmi troppa fretta finisco colazione, saluto il mio nuovo amico Anders e carico tutta la mia roba sulla Zino per questo secondo giorno che sarà ricchissimo di sterrati anche se con una percorrenza in totale un po’ più corta dei 150km del primo giorno.

Il meteo fuori non è il massimo ma risulta ampiamente affrontabile con il classico kit da mezza stagione: manicotti, smanicato antivento e guanti lunghi. Si aggancia il pedale e via. I paesaggi sono molto diversi da ieri, dal fascino aspro della montagna brulla di alta quota, si passa ai boschi e ai pascoli, anche la strada in queste prime ore è molto più percorribile e ben battuta. Non solo, il passaggio dei due ragazzi prima di me fa si che io “legga” sulla strada la loro traccia che, come naturale, è anche la miglior linea da seguire, evitando ciottoli e rocce sporgenti. Il mio pedalare diventa così un bel gioco a seguire la traccia, riesco ad abbassare un po’ la concentrazione e a lasciar spazio al godermi la natura che mi circonda, l’aria frizzante di montagna che mi riempie i polmoni e sento che, nonostante la grande fatica di ieri, le gambe stanno rispondendo bene e la bici scorre morbida come su di un tappeto di foglie autunnali.

Finisce che, complici alcune loro mini soste per far qualche foto (che poi scoprirò stupende) li raggiungo. Approccio un timido inglese ma è immediata la tonalità di risposta in un anglo-francese riconoscibilissimo. Sono una coppia di Parigi, a quanto capisco in una specie di viaggio di nozze molto alternativo quanto avventuroso. Scoprirò poi che lei, Jeanne, è anche una delle “bikepackers” più conosciute di Francia ed è un vero talento nella fotografia, con scatti di montagna davvero mozzafiato!
Ci ritroviamo in breve a scendere insieme verso Monesi, ancora ignari o quasi della piccola sorpresa che ci sta aspettando. Sapevo della frana della provinciale, ma ero fin troppo ottimista di poterla superare agevolmente a bici in spalla. E invece no. Arriviamo di fronte allo sbarramento e quello che ci si para davanti è un cancello da due metri, con ai lati i classici blocchi da metro cubo in calcestruzzo a reggerlo e a sigillare completamente la strada delle reti elettrosaldate fin contro il muro controterra da un lato e lo strapiombo dall’altro…. Bel problema! Il ragazzo parigino però non si perde d’animo e ha in tasca la soluzione: lui scavalca a piedi dall’altro lato, io mi piazzo sui cuboni in cemento e Jeanne ci passa le tre bici! In men che non si dica siamo dall’altra parte, contenti e soddisfatti di aver superato l’ostacolo e di poter proseguire nei nostri rispettivi viaggi proprio così come li avevamo pianificati!
Dopo il superamento di un’altra frana, che mi fa davvero pensare che il problema idrogeologico in Liguria sia cosa assai seria ed urgente, inizia la mia nuova lunga salita della strada del redentore. Il fondo non è di quelli semplici, l’attenzione è alta a trovare sempre la linea migliore e pedalo per un tempo che mi pare interminabile sempre con le mani sulla presa alta del manubrio, tirando quasi a volerlo strappar via.
Arrivo in cima dove il passaggio al colle è evidenziato da una piccola galleria che dà sui due versanti. Il tempo inizia ad esser più freddo, mangio e mi copro a modo per affrontare la discesa che sarà sì l’ultima in sterrato, ma anche la più tecnica ed impegnativa.

Prima delle vera e propria discesa però accade un fatto che non scorderò mai: il mio primo attacco di panico! E pensare che tutto stava scorrendo liscio e tranquillo, in un tratto a mezza costa tra una discesa e l’altra, sapevo bene che avrei affrontato una galleria di circa quattrocento metri, con il classico sviluppo a ferro di cavallo, addentrandosi nella montagna per evitare un classico movimento franoso di superficie. Ero attrezzato, luce led frontale bella potente, posteriore rossa lampeggiante e via. Mi fermo poco prima per installare le luci, mi chiudo l’antivento, consapevole del classico salto di temperatura fuori/dentro, e mi avvio all’interno. Mi son bastati i primi 80 metri per capre che ero nei guai, non realmente, ma di fatto, tra la luce non così potente come pensavo e il mio occhio che faticava ad abituarsi al drastico cambio di luce, mi ritrovo ad avanzare nel buio più totale. Come avessi chiuso gli occhi e provassi comunque a star in equilibrio e pedalare, il mio incedere diventa quanto mai incerto ed il sapere che il tracciato è tutto in curva mi conficca nella mente il pensiero: “tra poco andrai a sbattere col fianco contro la parete della galleria, sempre che tu non trovi una buca che ti faccia perder l’equilibrio”. E’ troppo, tra il freddo addosso e l’insieme di sensazioni negative, pianto giù immediatamente entrambe i piedi e faccio perno per girare la bici di 180°. Salto fuori da quel baratro in un tempo che mi è sembrato eterno e mi ci va qualche minuto per calmarmi e per ritrovare il me stesso consapevole di non correre alcun pericolo e di esser comunque di nuovo fuori dalla galleria ed all’aria aperta. Raduno le idee, spengo le lucette, dopodichè mi metto la bici in spalla e percorro quei 400 metri di sentiero (molto accidentato) al di fuori della galleria. Sentivo di non avere altre alternative ed il solo pensiero di riprovarci semplicemente mi atterriva, anche se una punta di delusione per non aver avuto quel sangue freddo che spesso mi contraddistingue rimane ancora oggi mentre sto scrivendo.
E si ritorna a scendere, molto. Ci metto davvero un tempo che mi è parso interminabile, con l’attenzione sempre al massimo per cercare la linea migliore ma quasi sempre il fondo è completamente dissestato e far fare ai miei arti da ammortizzatore è l’unica soluzione ma loro ormai dopo due giorni intensi mi stanno presentando il conto ed è piuttosto salato! Alcuni tornanti li percorro completamente dentro le nuvole, vedo le micro-gocce che si condensano sugli occhiali creando uno strato che distorce la mia visuale e quasi mi fa uscire dalla strada… accolgo l’inizio dell’asfalto quasi come una liberazione (ma non mi son forse imbarcato in questa mini avventura per la fame di sterrato?). Il primo contatto con la civiltà non è dei più promettenti, di fatto sono solo in una piccola borgata pressochè abbandonata e con l’aria delle classiche stazioni sciistiche abbandonate. Ci passo attraverso sentendomi come un esploratore in un villaggio fantasma sulla route66 americana: mi perdo nell’osservare carcasse di auto e pali di teleferica in disuso da decenni, cose che da sempre mi affascinano moltissimo. Ma la strada chiama ed è tempo di una piacevole discesa su asfalto, che mi par velluto, fino a Molini di Triora, dove ho pianificato la mia ultima breve sosta.
Potevo esser pago dopo un giorno e mezzo in bici e circa duecento chilometri pedalati di cui la metà su sterrato ad alta quota? Ma certo che no! La soluzione “shortcut” sarebbe stata quella di seguire la fondovalle da Molini e arrivare sulla via Aurelia, per poi fare i restanti 40km lungo costa. Ma chi me lo fa fare dopo essermi riempito di tutto questo vuoto meraviglioso di andarmi ad impelagare nel traffico costiero? Per cui, decisione rapida e via, si sale verso il colle del Teglia, un passo molto lungo e panoramico, interamente su asfalto che però, complice la stanchezza e le borse, si fa sentire davvero tanto nelle gambe. A dare un’ulteriore spallata è quell’ultimo tornante lassù, sempre lontanissimo ma che fa da obiettivo finale che, una volta raggiunto, presenta il conto perché non è la fine della salita! Benchè resti solo un’ultima rampa sembra interminabile, arrivano le prime (ed uniche) gocce di pioggia e faccio tutto questo tratto in compagnia di crampi a tutti i comparti muscolari delle mie gambe. Ma arrivo in cima all’ultimo colle del mio viaggio e la sensazione è molto bella ed incoraggiante.
Da qui in poi mi aspetta una discesa interminabile fino ad Albenga. E quando dico interminabile intendo veramente quella cosa lì! Dopo minuti e minuti mi sento stanco di guidare la bici, dato che solo quello sto facendo, ma ancora non si vede il mare. La pendenza è costantemente negativa (per fortuna!) ma implacabile. Inizio persino a temere un surriscaldamento dei freni, ma i miei fidi pattini (incredibile, non ho una bici con i freni a disco!) si comportano ancora benissimo e la frenata resta costante e controllabile fino all’ultima rampetta in discesa. Arrivo alla vasta piana di Albenga che il caldo mi investe tutto d’un colpo. Fortunatamente trovo dopo poco la classica e bellissima chiesetta con annessa fontanella dove potermi rinfrescare e svestire di tutto il superfluo (che oggi è parecchio: ginocchiere, manicotti, antivento smanicato, guanti lungi). Via tutto e mi sento talmente leggero che mi guardo indietro per assicurarmi che tutto il vestiario non l’abbia lasciato sul muretto della chiesa. Invece no, è proprio la sensazione di leggerezza dell’esser vicino alla meta che mi fa viaggiare così bene. Non guardo più nemmeno il navigatore, quasi che navigo fidandomi solo del mio fiuto nel sentire il profumo del mare così vicino.
Potrei andar subito all’appartamento per sdraiarmi e farmi una doccia ma ora non avrebbe senso. Attraverso l’Aurelia e finisco nella via che costeggia la ferrovia litoranea, proprio quella via che d’estate percorro “sciabattando” per andare in spiaggia. Oggi la vedo per la prima volta sotto una prospettiva diversa: è come viale Roma alla Milano-Sanremo, il boulevard del trionfo e dell’arrivo dopo decine e decine di chilometri sui pedali. Ultima svolta, sottopasso, epoi la sabbia sotto le ruote. Dovrebbe rallentarmi ma non ci riesce e in tre pedalate sono su di una piccola roccia a picco sul mare. Sento l’acqua del mare nebulizzata arrivarmi sulla pelle, sento lo sciabordio delle onde ed il sole che mi riscalda, anima compresa. Sono finalmente arrivato e mi godo per interminabili istanti questo momento. E’ stato un piccolo grande viaggio questo, il mio primo, pieno di incognite e di emozioni; due soli giorni ma dal peso di due anni. Un’avventura, a suo modo, che non dimenticherò più.

PS. Jeanne, che ho incontrato, ha poi pubblicato questo splendido video della Torino-Nice rally che ricalca (oltre a montagne da me conosciutissime) anche la via del sale con immagini proprio di quei giorni e quindi eccolo a voi:
https://vimeo.com/361924970
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