PERCHÉ LA VERA GARA È AI CHECK POINT, MA IL CP1 È A 2054m … (contiene la via del Sale)

Scritta così, temo che lascerà attoniti molti. Occorre fare una premessa, per chi non è avvezzo a quelle folli garette chiamate “alleycat”. Tutto nasce dal contesto della sub-cultura urbana dei bike messenger. Per metter a tacere le discussioni nel corso della settimana su chi sia il corriere più veloce e scafato, l’idea fu di simulare un paio d’ore di prese e consegne da affrontare nel traffico dello shopping del sabato (perché il traffico è componente essenziale della sfida) per vedere chi effettivamente fosse il più rapido a districarsi tra gli indirizzi e le auto (e con il foglio delle consegne – aka manifest – intatto e completato) fino all’arrivo, in genere il classico pub. Semplici, folli, adrenaliniche e aggreganti come solo il ciclismo “diverso” sa essere. Si diffusero sempre più, prima nell’America del nord (a fare i puntigliosi la prima di sempre fu corsa a Toronto), poi in Europa e poi, stante il carattere giocoso, vennero aperte anche a chi corriere in bici non lo era, ma semplicemente simpatizzante del movimento. Si diffusero anche nella nostra piccola penisola, nelle grandi città. Ebbi il classico colpo di fortuna di essere al posto giusto nel momento giusto per poterne così assaporare tutta la sprizzante ventata di novità in un panorama ciclistico all’epoca un po’ grigio ed imbolsito.

Ora, se correre un alleycat è come star dentro un videogame o, meglio ancora, dentro ad un flipper dove tutto avviene a velocità 2x, tra incroci, sensi unici, check che non si trovano, le classiche due/tre ore di tempo volano via in un soffio, invece se fai il classico volontario al check point è tutta un’altra storia. Il volontario al check ovviamente arriva, prima al suo posto, aspetta un tempo che pare interminabile (tipo i pomeriggi di quando eravamo bambini) e poi all’improvviso si vede arrivare come un’orda di barbari, ma in bici, tutti con già il foglietto in mano, tutti in fila “all’italiana” (voi sapete di cosa si tratta) da dover soddisfare contemporaneamente! Il checker poi, passata l’ondata delle gambe buone, ripiomba nella totale solitudine, al limite in compagnia di una o più birrette, in attesa di tutti gli altri e a volte si illumina quando vede lo sparuto partecipante, per cui offre birra e consigli in egual misura. Come se non bastasse, a fine gara è anche ovviamente tra gli ultimi a giungere all’arrivo (che arrivo non è ma è sempre un mix tra una birreria ed un’officina di bici), quindi si perde anche la prima fetta del post gara: perfetto, no? Ecco perché, all’alba dell’era dello scatto fisso nostrano, fu coniata la massima: “la vera gara è ai check”. Ci va gente fidata, che conosca l’ambiente, che non esageri con le birre e che riesca a tener fede all’impegno dato… nulla di banale a ben vedere!

Tutta questa mole di intro, manco fosse un brano dei Sonic Youth, per raccontarvi che mi ritengo invece un privilegiato ad aver potuto dare una mano come checker della gara di ultracycling chiamata 20k (per chi lo intuisse, sì, 20k è il dislivello, anche se quello effettivo è pure di più…) ideata ed organizzata da quella mente adorabilmente folle del mio amico Andrea Collino.

Anche se qui l’itinerario è tracciato, le gare di questo genere, come ancor di più la celebre transcontinental race, sono di fatto delle alleycat che hanno come estensione una fetta di mondo ben più grande di una città, financo un intero continente. Quando ho saputo che Andrea cercava un volontario per il CP1, ovvero il primo controllo orario, della sua pazzesca 20k (partenza/arrivo a Pinerolo, anche questa non può essere una mera coincidenza fantozziana), non ho resistito e l’ho chiamato immediatamente. Detto-fatto: sei dei nostri, ci vediamo su! Il punto del controllo orario è fissato nel rifugio Sanremo, ed ecco che come per magia, da questo episodio in poi il nome “Sanremo” per me sarà nell’ordine: la classicissima di primavera, il rally (un tempo tappa del mondiale wrc), il rifugio CAI… ed a seguire mi pare anche un festival di canzonette.

Se non l’avete già cercato su google, vi basti sapere che quel rifugio è il più alto della Liguria, quota 2054 m s.l.m., non ha un gestore, ed è in completa autogestione di chi vi alberga. Una piccola cucina, un bagno ed un buon numero di posti letto sono tutto quanto serve per trascorrere un periodo di relax e ristoro nel corso della propria escursione, in bici o a piedi, attraverso quel tesoro che sono le nostre Alpi, posto esattamente al crocevia tra l’Alta Via dei monti liguri e l’antica Via del Sale, in pratica il paradiso dell’outdoor.

Al posto delle tre ore delle gare urbane, il tempo da trascorrere al check (per fortuna non da solo) va dalla sera del sabato (19:30 perché serve esser precisi) al tardo pomeriggio della domenica: incastro perfetto tra gli impegni di lavoro, esattamente tra una call del venerdì ed una riunione al lunedì pomeriggio a Torino.

Dopo una pedalata di avvicinamento da Savona ad Albenga, mi sveglio sabato mattina di buon ora, metto il naso fuori e… piove… perfetto, devo solo far un centello di cui metà sterrato e 4k di dislivello, un po’ di pioggerella non può che aiutare no? Ok, mentirei a me stesso se dicessi che ero entusiasta, aspetto un po’ di tempo, ne approfitto per ricontrollare tutto l’equipaggiamento che ho, dato che sono un bikepacker da scuola elementare, spruzzo un po’ di wd40 sul pacco pignoni dell’ekar per renderlo silenzioso per tutto il weekend e via, ora o mai più. Scelta perfetta. Prendo una leggera pioggerellina per non più di mezz’ora, poi resta solo il fresco di una bella mattinata estiva e le stradine dell’entroterra ligure che, nel caso non lo sappiate, sono un vero tesoro per qualunque ciclista: con le loro salite lunghe, mai estreme e sempre senza traffico.

I primi 60km in solitaria, su asfalto, volano via facili, mi dedico un panino a Molini di Triora e mentre ricarico i vari device mi gusto il buonissimo pane di Triora (se non lo conoscete, male, molto male) con un po’ di affettati. Intorno a me è un pullulare di bikers, per metà stranieri, con mtb che sembrano appena uscite dai migliori showroom del pianeta e pick-up che portano su e giù i suddetti riders. Bene, sono per lo meno in un buon habitat, ma ora tocca far la fatica vera. Ero già stato sulla via del sale, unica ed affascinante, ma mai partendo dal mare, il che dà a tutto un sapore di sfida. Mi immagino chi questa strada così impervia la percorreva da clandestino e per necessità, ma ancor più (sono sempre un ingegnere infrastrutturale) chi questa strada l’ha costruita, con nulla più che le mani, qualche utensile ed il servile lavoro dei muli. Quindi mi ripeto che, per quanto io pensi di star soffrendo sui pedali, sono a tutti gli effetti un privilegiato e percorro questa interminabile salita quasi con reverenza verso chi mi ha oggi permesso di godere di queste montagne in sella alla mia bici.

Muta il paesaggio costantemente: dai boschi di castagno, ai pascoli, ai boschi di conifere, fino alla totale assenza di alberi, quel classico quota duemila metri dove anche gli arbusti non hanno l’ardore di crescere, noi abbiamo la pretesa di salirci in bici, nonostante tutto, sfidando le rocce ed il vento. Oltre alla pendenza, infatti, ci si mette anche il fondo a farmi soffrire: un misto di roccia calcarea e sassi smossi che mette a dura prova la ricerca costante di una linea pulita su cui arrancare col mio ultimo rapporto perennemente innestato. Non sono avvezzo a gestire i movimenti della bici carica, mi sembra di dover guidare un tandem senza passeggero, che reagisce sempre con un gap temporale che mi mette costantemente in crisi. Di metter il piede giù non ne voglio sapere, non ora. Incontro un paio di e-biker fermi che mi guardano tra l’attonito ed il divertito, riesco a dirgli un candido: “scusate le imprecazioni!” ma mi rispondono con consapevolezza da locals che questo è esattamente il tratto giusto per buttarle fuori tutte, per cui fiato alle trombe!

Scollino infine l’ultimo tornante, è (quasi) fatta! Abbandono il tracciato principale per arrivare al rifugio, quasi non mi accorgo che di fatto pendenze e fondo non sono cambiati rispetto a prima, ma esser in vista dell’obiettivo mi galvanizza. Anche il dover percorrere qualche piccolo tratto a piedi non scalfisce il morale, tra poco finalmente vedrò i ragazzi dell’organizzazione, conoscerò il mio compagno di check e, non ultimo, sono perfettamente puntuale. E invece no! Arrivo come un ferroviere svizzero alle 19:15 e dopo pacche e sorrisi Andrea mi fa: “ma lo sai che i primi due son già passati!?”. Per la cronaca, il secondo, anche al traguardo, sarà il buon Federico Bassis del collettivo enough, una garanzia di qualità, che sta facendo letteralmente un’impresa fuori dal comune, almeno agli occhi di un mediocre ciclista amatoriale (non avventuriero) quale sono io.

In attesa dei prossimi concorrenti, mi prendo qualche tempo per ammirare dove sono. Un luogo fuori dal tempo, fatto di montagna aspra e asciutta. Tutto mi parla di viandanti, di pellegrini, di contrabbandieri, di chi ha percorso queste strade spinto da una necessità e da motivazioni enormi. Se chiudo gli occhi riesco quasi a sentire il rumore dei loro passi e l’ansimare dei loro respiri, affaticati dal carico, fisico e di pensieri, che si portavano sulla schiena. Arriva la notte, ed il cielo si popola di una quantità di stelle che raramente ho visto in precedenza, sembra quasi di poterle toccare tanto paiono vicine e luminose. Ma i nostri occhi sono puntati verso il sorgere di altre stelle: quelle dei fari dei concorrenti che, scollinando dalla via Marenca, spuntano come delle piccole nane bianche, ma che, invece di salire verso il cielo, costeggiano l’orizzonte percorrendo tutta la mulattiera di cresta, per un tempo che a noi osservatori pareva lunghissimo, ma che sicuramente sarà parso come una specie di sprint a ciascuno dei corridori che percorrevano quell’ultimo tratto di via.

Accoglierli è emozione pura, percepisci la loro fatica solo standogli accanto ed ascoltando gli scampoli di racconto di quei primi 300 chilometri, che comunque sono la parte più facile (precisato a ragion veduta dall’organizzatore Andrea).

La mattina dopo il rifugio è un brulicare di persone ed attività. Ciclisti, escursionisti, tutti si preparano di buon’ora a partire, tutti hanno già focalizzato il loro personale prossimo obiettivo. Ma tutto quel fervere di attività dura poco ed in breve tempo ci ritroviamo in due, soli, a governare l’intero rifugio e ad attendere tutti gli altri concorrenti. Il mio compagno di avventura, il sciur Benedetto B., sotto l’apparenza di un signore di media età dalla vita d’ufficio, è in realtà un vulcano di racconti ed aneddoti dei suoi tanti ed interminabili viaggi in bici (quattro volte la via di Santiago su quattro percorsi diversi, tanto per citare le più significative). Io sono incantato ad ascoltarlo, e nel mentre mi insegna pure a giocare a burraco! Ecco che la giornata che all’inizio mi appariva noiosa, scivola via come l’acqua di un ruscello alpino, e tra un racconto ed una scala completa di picche, è già ora che io prosegua nel mio percorso, se voglio arrivare in tempo per la cena al prossimo rifugio sulla via del sale. Nel pomeriggio di un’assolata domenica, in un puntino sulla mappa delle Alpi, le nostre strade si dividono, la mia, quella di Benedetto, quella degli organizzatori, quelle dei corridori. Qualcuno in anticipo sui suoi piani, qualcuno in ritardo ma che si sta godendo il panorama, qualcun altro che è sull’orlo di mollare ma non lo fa perché sa che poi la fatica ed il dolore passeranno e resterà solo un album di ricordi pazzeschi da poter sfogliare, di quanto erano da soli, al vento tra le montagne.

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il mio primo anno nel paraciclismo

questo articolo è di un anno fa esatto, ha subito molte modifiche e traversie, ma oggi, nella settimana dei nostri secondi campionati nazionali su pista, era doveroso condividerlo almeno qui.

Molte volte sono proprio le cose che accadono inaspettatamente, non pianificate, ad imprimersi maggiormente nella nostra memora. E così, nel pieno di un’estate costellata di nuovi itinerari con la fiammante bici gravel tanto sospirata, arriva la chiamata che spariglia le carte in tavola: “ti andrebbe di far la guida di un equipaggio tandem con un ragazzo non vedente che vorrebbe prepararsi per  i campionati italiani di paraciclismo su pista?”.  Ora, io di mio sono sempre stato una persona curiosa, ma qui la curiosità era doppia. Arrivare a 45 anni senza mai esser salito su di un tandem era un’esperienza non più rimandabile, ma qui mi si offriva la doppia opportunità per entrare anche in punta di piedi nel mondo del ciclismo paralimpico. Non ci penso un secondo, ed accetto. Non so bene cosa aspettarmi ma tra me penso che non sarà poi tanto diverso dall’andare in bici singola, tanto più che la pista è per me decisamente una comfort zone, e che di sicuro annulla tutta una serie di variabili poco controllabili tra cui il traffico e, fatto non secondario, anche le salite, dato che il peso messo su in questa pandemia mi fa arrossire ogni volta che vedo un mio tempo sulle salite fatte qualche anno fa.

Complice una pioggia impertinente, il giorno dell’esordio è solo statico, nessuna pedalata. Apprezzo però fin da subito l’entusiasmo di Michele, mio nuovo compagno di pedalate. Maneggiare e soppesare un tandem è già di per sé una scoperta. Lungo, molto più lungo di quanto ricordassi da quanto visto in passato, pesantuccio e da manovrare con cognizione di causa. Questo in particolare ci è stato dato in comodato d’uso dalla fondazione “Obiettivo3” di Alex Zanardi e basta questo per inorgoglirci e motivarci a far bene. E’ però un tandem da strada che quindi, per le gare su pista che affronteremo (kilometro da fermo ed inseguimento individuale), andrà adattato bloccando il rapporto come se fosse idealmente una trasmissione a scatto fisso. La prima prova è solo rimandata di una settimana e, scontato l’apprendistato necessario per impadronirsi delle fasi del “partire e fermarsi” (proprio come nell’aviazione queste sono le fasi più delicate dove finir per terra è fin troppo facile), iniziamo a far ritmo e a sentire il vento che via via sibila sempre più forte nelle nostre orecchie. Michele è un compagno attentissimo a questa fase di allenamenti, coglie ogni minima variazione di ritmo e traiettoria sulle paraboliche, “sente” la potenza erogata da entrambe e detta ritmo e cadenza dei vari esercizi di avvicinamento alle due discipline. Sessione dopo sessione affiniamo sia il mezzo meccanico (gomme, pedali e catena nuovi, ma soprattutto installiamo le prolunghe da cronometro che sono essenziali nell’inseguimento) sia l’intesa di pedalata, che con delle semplici parole risulterebbe ben difficile da spiegare. Le due pedivelle sono solidali e sincronizzate tra loro, il motore è di fatto un quadricilindrico a propulsione umana, e proprio come gli altri motori, quelli che fanno fumo, anche questo non può e non deve avere un cilindro o due che scoppiettano rispetto agli altri. Tutto deve essere una piccola sinfonia eseguita sotto le orecchie vigili di un direttore d’orchestra, uno di quelli che scova all’istante che il terzo violinista partendo da sinistra è fuori di un quarto di tono. Non solo, la guida di questa trave da ponte con le ruote alle estremità non è così semplice come si possa immaginare, ma segue la legge di quando si va sulla sabbia: “più vai forte più veleggi preciso”, ed anche qui, in piena velocità, si ha la sensazione di essere il capitano di una nave lanciata a tutto vapore… correzioni minime e barra dritta!

Gli allenamenti si susseguono velocemente, ma è all’ultima sessione, quella di rifinitura, che il livello di pressione emozionale sale alle stelle. Mentre ci avviciniamo alla pista racconto a Michele ciò che ci circonda, quanti stanno girando, e che a bordo pista hanno già anche montato il podio. Lui per tutta risposta, immediato, come una demi-volè, butta fuori la sentenza: “noi ci dobbiamo salire su quel podio!”. Io vengo spiazzato proprio come un tennista sprovveduto, ma al tempo stesso caricato a molla per far del mio meglio. Il tempo non è stato molto, ma gli allenamenti sono stati quelli giusti e l’intesa c’è ed è di quelle belle, rivolta verso l’obiettivo comune di far bene.

(foto di Piergiorgio Mariconti)

Race day: nessuna scusa. Arrivati di buon mattino e sbrigate le pratiche amministrative, siamo subito attenti al briefing pre gara, dove il tecnico UCI (sì sì non federazione, proprio UCI) spiega nel dettaglio gli svolgimenti delle gare e specifica quanto rigorosa sarà anche la cerimonia protocollare di premiazione. Non siamo alla granfondo di Voghera, non ci si può nascondere in gruppo, nessuna strategia, stare al vento per quattromila metri è qualcosa che è in grado di dilatare il tempo e far diventare quei dieci giri di pista un viaggio ai limiti di quanto ciascuno dei propri fisici possa esprimere, senza mai perdere il timone della guida per far restare la nostra massa pedalante nella migliore traiettoria possibile, fino all’ultimo centimetro. Sostenuti dal commissario iniziamo a posizionarci, in quella danza gestuale che precede la partenza, il frastuono sulle tribune si allontana come se le stessero trainando via, il chiacchiericcio ed il ronzio dei rulli degli altri atleti si fa sempre più basso fin quasi a scomparire, i polmoni si gonfiano ed arriva lo sparo dello starter. Tutta la pressione mentale svanisce come cancellata da un colpo di spugna. Siamo soli. Con un infinito rettilineo ripiegato da percorrere al meglio delle nostre possibilità. La partenza era un po’ il nostro punto debole, ma la forza iniziale di Michele la sento trasmessa a tutto il tandem, prendiamo velocità nel migliore dei modi e poi giù, sulle prolunghe crono per vincere quella maledetta resistenza all’aria che è il nemico numero uno di ogni ciclista veloce. Quando arriviamo a metà prova, ai fatidici “meno 5”, mi sembra di aver già dato quasi tutto, ma so anche che è proprio da qui in poi che si fa la gara. Non calare, non dobbiamo calare di velocità, e l’unico modo per uscirne e tenere costante la cadenza acquisita, senza sconti. Ogni minuto le gambe devono girare almeno novanta volte, mai meno. Con questo stratagemma mentale i giri sfilano via uno dopo l’altro, provo a usare qualche altro trucchetto da vecchio pistard come, ad esempio, percorrere la curva scendendo tra la linea rossa dei velocisti e la nera demarcante la corda, in modo da farla sembrare una specie di mini discesa per qualche decina di metri, il contentino che ne traiamo è più mentale che pratico, ma tant’è. Il vero e proprio boost arriva alla campana dell’ultimo giro, questo sì fatto tutto in apnea fino all’ultimo metro e quel “din” del tocco finale di campana è una vera e propria liberazione. Quasi storditi dallo sforzo rientriamo ai box e ci attacchiamo alle reti aspettando gli altri tempi, dato che, in quanto atleti di casa, eravamo partiti per primi. Salire sul podio è questione di secondi, pochi maledetti secondi, ma alla fine sì, siamo a podio! Brividi lungo la schiena, abbracci sentiti fino in fondo ed un esser fieri di noi stessi che mai avevo provato in questa forma. Non siamo una squadra, siamo un equipaggio: come pilota e navigatore delle auto da rally, in questo caso siamo anche i motori di noi stessi, e una miscela di emozioni unica che culmina con l’inno nazionale suonato con noi sul podio, a fianco di avversari che so già diventeranno anche loro amici, perché ad oggi il mondo paralimpico è ancora piccolo ma ha una potenzialità che non credevo nemmeno possibile

io e Michele in gara nell’inseguimento su pista (foto di Piergiorgio Mariconti)

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LA MIA PROSSIMA BICI…

Lo so, leggendo il titolo chi mi conosce penserà immediatamente: “hey, ma tu hai già tante (troppe) bici!”. Ed in proporzione questo è assolutamente vero, in garage devo centellinare i centimetri a disposizione di ognuna in un incastro degno del miglior giocatore di Tetris degli anni ’80, quale sono stato.

Ma il punto non è questo. Come sapete son tutto fuorché un collezionista: cerco per quanto possibile di pedalare tutte le mie bici perché ritengo che ognuna abbia un suo ambito, un qualcosa in cui la tal bici dal mio punto di vista eccelle ed è quella che scelgo per far quel determinato giro o allenamento che sia. Ho sempre ragionato così, continuo a farlo, e di fatto è anche bello programmare non solo la settimana lavorativa ma anche la settimana ciclistica selezionando il quartetto (o la cinquina) di bici che userò la settimana successiva.

Fatta questa doverosa premessa, ci pensavo da tempo ad una nuova bici. Non tanto per la smania da “n+1”, quanto per il fatto che prima ancora delle tendenze del mercato, sono io che provo sempre a portare una bici sulla carta sbagliata in una nuova situazione e questo, oltre ad arricchire il mio bagaglio mentale, mi diverte parecchio e mi fa scoprire posti nuovi ma soprattutto che tante esperienze che mi ero precluso potevano esser tranquillamente fatte ed esser divertenti con un mezzo sulla carta non adatto. Oltre a questo, che già non è poco, questo mi ha sempre aiutato a capire in che direzione andare per un mezzo che colmasse quel gap che avevo avvertito nell’avventura precedente. E se è vero che di bici da corsa (e da pista) ne ho già troppe e così diverse tra loro da non farmi desiderare altro, è anche vero che ho una splendida bici da ciclocross, che ho adattato (bene) anche al gravel e con la quale ho vissuto quella che, ad oggi, è l’esperienza di viaggio in solitaria più bella che abbia mai fatto: la due giorni sulla via del sale, ma che rimane, per impostazione/componenti/geometrie, una bici da ciclocross!

In quel viaggio, ed in altri giri sulle militari sterrate della mia valle, sono emersi tutti i pregi ed i difetti di avere una bici da ciclocross usata al di fuori del suo ambito. E’ una bici scattante, tutto sommato leggera e robusta, che ti fa sentire la strada e che “gira in un fazzoletto” come si dice in gergo. Per contro, inevitabilmente, sul veloce è giustamente nervosa e sensibile a come viene guidata, ed ovviamente non fa della comodità il suo cavallo di battaglia, proprio perché non è nel suo DNA!

E mi ritrovo allora a pensare ad una bici che venga un po’ più incontro al mio cronico mal di schiena, ormai inizio ad aver un’età… Che sia comoda, o almeno un po’ più comoda delle bici che già ho, ma anche pronta e reattiva quando vien voglia di forzare sui pedali come piace spesso fare a me, fosse anche la classica “volata del cassonetto” (cit.). Una bici che mi porti dove non sono mai stato e che lo faccia magari partendo già da casa: perché i giri in bici sono tutti belli, ma chiudersi alle spalle il cancelletto di casa e partire ha un fascino speciale tanto quanto poi l’emozione di ritornarci, a casa, con le sole proprie gambe. Insomma, una bici per viaggiare.

Quello su cui non ho avuto il minimo dubbio è il materiale: acciaio. Di quello bello, leggero, quasi spirit-uale, interpretato in chiave moderna, sempre sotto il segno della colomba bianca e, magari, anche sotto l’ala protettrice di un grande marchio, che sappia coniugare gli standard moderni alla cura artigianale e con un tocco di estetica che, si sa, a noi ciclisti piace eccome anche solo rimirarla in garage.

Acciaio non preclude modernità, anzi, la voglio con tutti gli standard ciclistici attuali. Quindi via libera a dischi, perni passanti, sterzo conico… tutto il campionario del giorno d’oggi dato che da quando pedalo non mi son mai potuto (voluto?) permettere componenti di attuale produzione, ripiegando sempre su quello che veniva dismesso in favore del nuovo che avanza ma che, ad onor del vero, mi ha sempre dato enormi soddisfazioni e con la tranquillità di aver risparmiato un gran bel po’ di soldi. Unica certezza: nessuna batteria sulla bici se non quella del Garmin.

Se ci voglio viaggiare e se voglio non esser confinato dall’asfalto, le ruote vanno larghe. Ok non troppo larghe, ma sufficientemente larghe e con gomme, magari prodotte lontanissimo da qui, che sappiano mordere la terra in salita e far presa sul brecciolino in discesa. Altro punto fermo: l’unica camera d’aria che voglio avere è quella ripiegata nella sacca degli attrezzi, lasciata lì per le sole emergenze.

E come si fa con il gruppo? Proprio io che sono così affezionato anche all’altra casa con l’ala (quello con la ruota, l’ala e lo sgancio rapido) ho sempre notato, così come chi si appassiona a questo mondo, la classica loro modalità di affrontare il mercato a piccoli passi, sempre senza quasi mai rivoluzionare tutto ma perfezionando, migliorando, affinando passo passo quanto di buono fatto fino a quel punto. Questa volta, così come nei migliori film, mi son fatto invece prendere e sorprendere da quella ventata di nuovo, quello scossone al retrogusto di modernità che davvero non mi aspettavo. Ed ammetto di essermi anche un po’ emozionato quel giorno a vedere il video di presentazione ed esplorare tutte le novità che portava con sé. Ora quelle novità le voglio pedalare e per fortuna manca poco…

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IL GRAVEL CHE NON TI ASPETTI È PROPRIO DIETRO CASA TUA (SÌ, DICO A TE!)

Per chi segue un po’ il mercato del mondo bici non è certo una freschissima novità l’arrivo in pompa magna del segmento delle “gravel” nel mercato ciclistico nazionale. Se si vuol parlar di moda o altro sinceramente mi interessa poco, quello che invece vorrei sottolineare è la versatilità di queste bici e quanto possano essere d’ispirazione per scoprire un nuovo modo di pedalare.

Sono di fatto l’evoluzione di quelle che erano biciclette ultra-specifiche per le competizioni di ciclocross, che hanno incontrato una indovinata ibridazione con alcune soluzioni del mondo mtb andando a creare un vero segmento di mercato: bici comode, stabili, con una gommatura generosa ma molto più leggere e scorrevoli delle mtb classiche… insomma il classico uovo di colombo.

Ok, la compro, ma poi come la uso? Che ci faccio? Dove vado? Come mi posso allenare? Ebbene, la risposta è proprio dietro l’angolo!

La loro versatilità e l’adattarsi a moltissimi percorsi, fa sì che le nostre città, grandi o piccole che siano, si trasformino in veri e propri enormi parchi giochi dove andare a metter le ruote. Vi spiego meglio.

Tranne una fortunata percentuale, molti di noi hanno sostanzialmente un lavoro sedentario da molte ore al PC. Bene, sfruttiamo questo pc nelle pause dall’attività frenetica lavorativa e facciamoci un giro, per iniziare, sul classico Google maps. Da lì si può iniziare a trovare parchi, ciclabili, alzaie, strade poderali, mulattiere… insomma un dedalo di strade e stradine proprio lì, appena fuori da casa o dall’ufficio… una risorsa, sia per il verde che le accompagna ma sia come base per il nostro piano di avventura/allenamento. Curiosate, passate ogni tanto alla “street view”, seguite i “tratteggi verdi” degli sterrati ed immedesimatevi nello stare in bici (a me riesce benissimo …).

Fatto? Bene, ora cambiate piattaforma e passate a Garmin connect (o Strava se siete abbonati) e dal menù di allenamento passate alla creazione di un percorso. Entrambe, come opzione o mediante la barra di avanzamento, mostrano se siamo su asfalto o su sterrato. Ora via, spazio alla fantasia e mettete in fila tutto quanto vi può ispirare, senza aver paura di andare in posti nuovi, anzi, proprio questo è il bello! Il calcolatore del passo, la distanza ed il dislivello, vi daranno anche una preziosa indicazione sul tempo di percorrenza previsto di modo da rientrare nella disponibilità e nel grado di allenamento di ciascuno.

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Non solo, ma da qualche tempo a questa parte, entrambe mostrano una heatmap con i percorsi più battuti. Il bello è proprio usar quella come spunto nei due sensi, sia seguire qualcosa di più conosciuto, se ancora non lo si è percorso, sia osare ed esplorare strade meno battute. Non vi nascondo che, personalmente, la seconda opzione mi affascina sempre un po’ di più…

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In questo semplice modo e per tentativi successivi, nel mio piccolo ho trovato luoghi meravigliosi ad un colpo di pedalata dal mio ufficio, percorsi che calzano alla perfezione sia per il tempo della mia pausa pranzo sia per quanto ho qualche ora in più e soprattutto lontano dal traffico e dalla confusione cittadina, tanto che spesso mentre pedalo continuo a stupirmi di essere ancora ad un attimo dal centro città.

Provate, tentate, lasciatevi portare dalla fantasia e dall’avventura; là fuori ci sono tantissime fette di mondo da esplorare con le nostre bici che si adattano sia ai noiosi asfalti che ai polverosi sterrati. Poi fate qualche pausa e qualche foto durante il percorso, e raccontate agli amici quanto sia stato sorprendente quello che avete trovato pedalando!

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(N.d.T.: articolo già apparso sul gruppo facebook Garmin Bike Lab)

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back in black (maza road steel)

Capita quelle volte (ok a me capita un po’ troppo spesso) che fai la spunta dei pezzi fermi in garage e vien fuori la possibilità di montare una bici nuova, manca solo un telaio!

Chi mi conosce sa che sono un grande fan delle bici post moderne, ovvero dei telai classici in acciaio montati con componentistica moderna. Questa volta però è accaduto qualcosa di diverso e molto, molto più bello.

Come sempre ebay è mio grande amico e da una prima passata sul motore di ricerca ricavo una buona manciata di candidati ad entrare nel mio garage, tutti “ferri italiani”, tutti piuttosto ben messi anche se, ad esser onesto con me stesso, la scintilla non era scoccata per nessuno di essi. Poi, il secondo giorno accade quello che non mi aspettavo, ovvero trovo un’inserzione di un telaio moderno da strada, in acciaio, di fabbricazione Maza (modenesi). Il telaio è della mia misura, tutto verniciato nero lucido, e non ha alcun marchio, se non la pantografia “maza” sul ponticello del freno posteriore. Manca la forcella, che in questo caso dev’esser conica e, ironia della sorte, il mio amico Giacomo mi aveva pochi giorni prima restituito una forca Columbus che avevo usato come provvisoria quando avevo mandato quella del Vigorelli a verniciare dal sapiente Tony spray.

Quell’inserzione però è strana. Ha le foto, in interno, del telaio in vendita, nudo e crudo, ma ha anche una foto della bici montata, con delle grafiche adesive piuttosto particolari ed un qualcosa che mi fa continuamente dire: “ma io quella bici da qualche parte l’ho già vista!”. Ed infatti era proprio così. Il telaio in questione fu prima acquistato da @paltro e poi passato al caro saragozzas, che ne fece una bici da lunghe percorrenze davvero bella, ecco era proprio quella bici, quello è proprio il telaio appartenuto a saragozzas.

Si sa che, specie nel mio caso, le emozioni tirano sempre scherzi pesanti e questo è il caso. Ora mi sento addosso il dovere (e la voglia) di essere il nuovo custode di quel pezzo di ferro, non certo per tenerlo in una teca ma per fargli respirare ancora aria di strade nuove, aria di passi alpini.

Contatto il venditore che con grande gentilezza e disponibilità mi conferma tutto quello che avevo scoperto e mi fa anche un prezzo assolutamente ragionevole. In più, essendo lui a Ferrara, mi dice di conoscere il buon @Cecio che entra prepotentemente protagonista prendendosi l’onere di andarlo a ritirare personalmente, verificare che sia ancora geometricamente a posto (e chi meglio di lui…) e me lo impacchetta con cura certosina in modo che affronti un viaggio sicuro anche in mano ai peggiori corrieri del nord italia.

Scartare il pacco è un po’ come sentirsi un bimbo a Natale e qui le emozioni sono ancora più amplificate dal sapere già che pezzo è dentro quello scatolone. La vernice è in ottimo stato, i filetti del movimento centrale pure. Non è una piuma, rispetto agli altri miei telai in acciaio, ma non è questo il parametro che gioca su di me la carta più importante. Quello che mi stupisce è l’ottimo livello di finiture e la, naturale, grandissima rigidezza torsionale che esprime, forte di quei tubi che definire “oversize” è ancora un eufemismo da quanto sono grandi e, si sa, il momento d’inerzia viaggia con il cubo della distanza dal baricentro quindi l’ingegnere che è in me inizia subito a gongolare.

Ad esser del tutto onesti, mancavano solo un paio di componenti come ad esempio la serie sterzo e qui, nuovamente, le emozioni la fanno da padrone per cui mi metto ancora una volta nelle mani del signor Chris King che nel 1976 (che annata!) iniziò la produzione dei migliori cuscinetti sigillati del globo, ed anche per una serie sterzo integrata riesce a venire perfettamente incontro alle mie esigenze. Prese anche due gomme nuove e comode da 28mm, tutto era pronto per il montaggio.

In questo frangente mi è stato di grande aiuto il mio caro amico @matteozolt che in un pomeriggio post (ottima) mangiata a messo su tutto con una precisione degno di una maison di orologeria svizzera. In un baleno era pronta e si sa, i primi chilometri sono belli come il primo sorso di birra quando hai sete.

Son davvero contento di questa bici e spero proprio che mi faccia compagnia per un bel po’ di tempo e, magari, in qualche bel viaggetto.

Ora le foto del montaggio:

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