metto anche per mia raccolta personale l’articolo apparso sul recente numero di CYKELN Magazine che vi invito chiaramente a scaricare e leggere per intero!
La domanda potrebbe all’inizio sembrare banale, ovvero un classico domandone del ciclismo, spesso visto dal di fuori, del tipo “ma chi ve lo fa fare?”. La differenza tra le due domande è però sostanziale e molto più ampia di quanto si possa pensare.
Su strada c’è la fatica, le salite interminabili, il sudore, i fondovalle infiniti senza nessuno che ti dia il cambio e a cui stare a ruota. Ma anche le discese, il tornare un po’ bambini, i chilometri che scorrono veloci sotto le gommine da ventitre millimetri. E allora è vero che spesso ti chiedi il canonico “chi me lo fa fare”, ma poi le emozioni della strada si alternano e passa tutto con una buona discesa, o un falsopiano in cui far mulinare le gambe ad alta cadenza e sentirsi bene con se stessi.
Il ciclocross non è niente di tutto questo. Fondamentalmente il ciclocross è una disciplina sbagliata, fatta con la bici sbagliata, nei posti sbagliati e soprattutto nel periodo dell’anno peggiore possibile.
Bene, ora se non avete già cambiato pagina vi racconto perché, nonostante queste pessime premesse, questa disciplina esiste ancora e, in aggiunta, sta vivendo una nuova primavera (il gioco di parole è involontario, ma tant’è).
La scintilla nacque circa un secolo fa, subito a ridosso del ciclismo dei pionieri del primo giro d’Italia e del primo tour. Proprio nella Francia del nord, dove l’inverno è tangibile e dove i monti su cui sciare o simili eran per l’epoca troppo lontani per pensare di eleggere lo sci a sport invernale, qualche scriteriato provò ugualmente ad usare la stessa bici che usava in estate (sapete meglio di me che allora le bici da corsa erano ben carrozzate, mica i 6,8kg di tecnologia aeronautica di oggi) nei prati, tanto per mantenere la gamba. E se c’era un ostacolo da superare? Niente paura, si scendeva e si portava la bici a spalle per qualche tratto. Si giocava, in fondo, per il tempo lasciato libero anche dai lavori nelle campagne, quindi l’unione di noia e curiosità amalgamate insieme ancora una volta portò a risultati sorprendenti.
A proposito, sono convinto che tutta la vera arte nasca dal connubio di ozio e curiosità, ma non è questa la sede in cui dilungarmi, e anche per la storia della disciplina ormai esistono google e wikipedia, quindi cerco di raccontarvi qualcosa che, forse, ancora non sapete.
Si arriva senza nemmeno troppe varianti a quello che è oggi il ciclocross, con una stagione fittissima di gare ad ogni livello, da ottobre a febbraio, si corre con ogni condizione climatica a meno che arrivi proprio la protezione civile a sradicare i paletti del percorso. Il percorso (quello è il vero fulcro) è in genere dai 2 ai 4 chilometri, ma la lunghezza in sé non rappresenta molto quello che si ritrova in gara. Si parla di curve, tante curve, la maggior parte a 180° e (ovviamente) sull’erba o su terra, strette che sembrano non adatte alla bici, salite e discese, spesso le prime estreme in cui se non si arriva decisi e con il rapporto giusto è meglio scendere e andar su con la bici in spalla, tratti in sabbia che esaltano le doti di guida, ostacoli e, magari, anche qualche scalinata da salire. Tutte cose che non dovrebbero aver a che fare col ciclismo ma che invece riescono ad esaltarne il gesto atletico, a renderlo nobile come nobile è una mischia nel rugby, dove i tacchetti delle scarpe affondano nell’erba e nel fango per cercare di avanzare. Fa freddo quasi sempre e poi, appunto, fango, tanto fango, un mare di fango, dove a volte anche percorrere un rettilineo significa dover tirare fuori tutte le doti di guida che si possiedono per non cadere, dove le stesse biciclette dopo poco iniziano a pesare il doppio e a chiedere pietà ai propri padroni per quel trattamento ingrato, in fondo loro sono delle cugine delle nobili e scintillanti bici da corsa, perché umiliarle a quel modo?
Tutto quanto descritto si svolge grossomodo nell’arco di un’ora, una sola interminabile ora: una delle poche certezze del ciclocross è proprio che bene o male ad un certo punto la gara finisce, poco importa quanta strada si è fatta in quel lasso di tempo. La corsa termina inesorabilmente e senza pietà. Un po’ come disse uno di quelli vincenti: “nel ciclocross (come in salita) non ti puoi nascondere”, se non sei all’altezza vieni inesorabilmente punito, se tiri i remi in barca da metà gara in poi idem. Non ci sono le tattiche e le strategie delle gare su strada, non ci sono ruote buone da seguire, non si lima, non si cura, si mena e basta. Il fuorisoglia cardiaco è costante, il tutto complicato dal dover mantenere altissima l’attenzione nella guida, altrimenti nella migliore delle ipotesi si ruzzola nell’erba, momenti per abbassare la guardia non ce ne sono mai, nemmeno negli sporadici tratti d’asfalto, spesso resi viscidi dal fango scaricato dai tasselli delle ruote, giro dopo giro. Di fatto la differenza tra un buon piazzamento ed un ultimo posto od un ritiro è sottilissima, appesa ad un filo più sottile delle fettucce che delimitano il percorso.
Accade però qualcosa di strano in tutto questo maelström di curve, fango e fatica: spesso si dice che siano le condizioni estreme a rendere le imprese straordinarie e finire bene una gara di ciclocross è una cosa che rende talmente orgogliosi, che il sottile gioco di sfidarsi ancora e ancora prende il sopravvento.
Ci si trova così, costantemente in bilico tra il sentirsi dei reduci con onore ed avere dentro la voglia di ripartire verso la prossima battaglia, per fare ancora meglio, imparando dagli errori passati e costruire qualcosa di buono, che non è rappresentato dal vedere il proprio nome in classifica, basta una pacca sulla spalla dell’amico che ha corso con te a gratificarti ed a invogliarti ancora una volta a sfidare te stesso, in fondo basta poco: un bosco o un prato, paletti e fettuccia, la bici adatta e degli appassionati veri.
Ci vediamo là fuori il prossimo weekend…