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back in black (maza road steel)

Capita quelle volte (ok a me capita un po’ troppo spesso) che fai la spunta dei pezzi fermi in garage e vien fuori la possibilità di montare una bici nuova, manca solo un telaio!

Chi mi conosce sa che sono un grande fan delle bici post moderne, ovvero dei telai classici in acciaio montati con componentistica moderna. Questa volta però è accaduto qualcosa di diverso e molto, molto più bello.

Come sempre ebay è mio grande amico e da una prima passata sul motore di ricerca ricavo una buona manciata di candidati ad entrare nel mio garage, tutti “ferri italiani”, tutti piuttosto ben messi anche se, ad esser onesto con me stesso, la scintilla non era scoccata per nessuno di essi. Poi, il secondo giorno accade quello che non mi aspettavo, ovvero trovo un’inserzione di un telaio moderno da strada, in acciaio, di fabbricazione Maza (modenesi). Il telaio è della mia misura, tutto verniciato nero lucido, e non ha alcun marchio, se non la pantografia “maza” sul ponticello del freno posteriore. Manca la forcella, che in questo caso dev’esser conica e, ironia della sorte, il mio amico Giacomo mi aveva pochi giorni prima restituito una forca Columbus che avevo usato come provvisoria quando avevo mandato quella del Vigorelli a verniciare dal sapiente Tony spray.

Quell’inserzione però è strana. Ha le foto, in interno, del telaio in vendita, nudo e crudo, ma ha anche una foto della bici montata, con delle grafiche adesive piuttosto particolari ed un qualcosa che mi fa continuamente dire: “ma io quella bici da qualche parte l’ho già vista!”. Ed infatti era proprio così. Il telaio in questione fu prima acquistato da @paltro e poi passato al caro saragozzas, che ne fece una bici da lunghe percorrenze davvero bella, ecco era proprio quella bici, quello è proprio il telaio appartenuto a saragozzas.

Si sa che, specie nel mio caso, le emozioni tirano sempre scherzi pesanti e questo è il caso. Ora mi sento addosso il dovere (e la voglia) di essere il nuovo custode di quel pezzo di ferro, non certo per tenerlo in una teca ma per fargli respirare ancora aria di strade nuove, aria di passi alpini.

Contatto il venditore che con grande gentilezza e disponibilità mi conferma tutto quello che avevo scoperto e mi fa anche un prezzo assolutamente ragionevole. In più, essendo lui a Ferrara, mi dice di conoscere il buon @Cecio che entra prepotentemente protagonista prendendosi l’onere di andarlo a ritirare personalmente, verificare che sia ancora geometricamente a posto (e chi meglio di lui…) e me lo impacchetta con cura certosina in modo che affronti un viaggio sicuro anche in mano ai peggiori corrieri del nord italia.

Scartare il pacco è un po’ come sentirsi un bimbo a Natale e qui le emozioni sono ancora più amplificate dal sapere già che pezzo è dentro quello scatolone. La vernice è in ottimo stato, i filetti del movimento centrale pure. Non è una piuma, rispetto agli altri miei telai in acciaio, ma non è questo il parametro che gioca su di me la carta più importante. Quello che mi stupisce è l’ottimo livello di finiture e la, naturale, grandissima rigidezza torsionale che esprime, forte di quei tubi che definire “oversize” è ancora un eufemismo da quanto sono grandi e, si sa, il momento d’inerzia viaggia con il cubo della distanza dal baricentro quindi l’ingegnere che è in me inizia subito a gongolare.

Ad esser del tutto onesti, mancavano solo un paio di componenti come ad esempio la serie sterzo e qui, nuovamente, le emozioni la fanno da padrone per cui mi metto ancora una volta nelle mani del signor Chris King che nel 1976 (che annata!) iniziò la produzione dei migliori cuscinetti sigillati del globo, ed anche per una serie sterzo integrata riesce a venire perfettamente incontro alle mie esigenze. Prese anche due gomme nuove e comode da 28mm, tutto era pronto per il montaggio.

In questo frangente mi è stato di grande aiuto il mio caro amico @matteozolt che in un pomeriggio post (ottima) mangiata a messo su tutto con una precisione degno di una maison di orologeria svizzera. In un baleno era pronta e si sa, i primi chilometri sono belli come il primo sorso di birra quando hai sete.

Son davvero contento di questa bici e spero proprio che mi faccia compagnia per un bel po’ di tempo e, magari, in qualche bel viaggetto.

Ora le foto del montaggio:

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three is a magic number: my RESPUBLICA SUPERIOREM vol.3

Questa volta l’attesa era davvero di quelle da “evento dell’anno” e la crew di Genova ha di nuovo saputo confezionare un piccolo capolavoro, sotto tutti gli aspetti. Ma andiamo con ordine per fissare, è proprio il caso di dirlo, gli indelebili momenti di una giornata da ricordare.

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Partiamo presto, in una mattina che da lato piemontese degli Appennini promette solo freddo e umido, per dirigerci come lo scorso anno verso Genova per la terza, e molto molto probabilmente ultima, edizione della “Respublica Superiorem”.

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res_3Per chi avesse perso le puntate precedenti, vi racconto in sintesi di una gara che, sfruttando il perfetto playground genovese, riesce a riunire in un’unica competizione una marea di aspetti diversi, candidandosi di fatto a vera e propria gara totale. Ovviamente, e qui sta il bello, è organizzata dal basso, rude e sanguigna come solo gli eventi a loro modo pionieristici sanno essere, dove ogni corridore è felicemente consapevole di esser pienamente responsabile delle proprie azioni e di esser tutelato alla stessa stregua modo di quando si allena da solo.

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Questa volta il luogo di partenza è forse ancora più suggestivo delle precedenti edizioni: una vera e propria balconata sulla città che ci fa subito apprezzare il clima perfetto, i profumi del mare mischiati alla focaccia, la distesa di tetti che fanno di questa città qualcosa di unico ed affascinante ma al contempo non alla portata del semplice turista quanto più del vero viaggiatore. Ed un viaggio a ritmo gara è quello che i ragazzi di SCVDO oggi ci hanno preparato, per chiunque abbia la gamba e, diciamolo, il fegato di affrontare un percorso che sarà tanto brutale quanto stupendo. Già perché, val la pena sottolinearlo, a Genova si corre solo con bici a scatto fisso e senza i freni, proprio quelle che dovrebbero stare solo nei velodromi e, invece, saranno in strada, in città, in salita (molta!), in discesa e sugli sterrati (e qui c’è del vero genio)!

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La partenza, come spesso accade, è già una festa. Chiavi inglesi da 15 in ogni dove, set up da fare all’ultimo momento qua e là (cosa che per un paio dei big presenti si rivelerà purtroppo fatale), nessuno con un abbigliamento uguale ad un altro e, cosa davvero notevole, il sentir parlare un bel po’ di lingue estere a testimonianza che quando le cose si fanno davvero bene, chi ne ha modo affronta anche viaggi importanti pur di poterci essere. E allora via, attiviamo la traccia gps sui nostri garmin, lasciamo da un lato, stile vecchio start alla LeMans, le bici e ci dirigiamo nel vicoletto a fianco per attendere il via.

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Parto già svantaggiato, con le ingombranti tacchette look da strada sotto alle scarpe, che faranno di me un corridore con uno stile alla donald duck ma poco importa, la gara sarà lunga. Da un’idea del creatore della redhookcrit, il conto alla rovescia ha un’implosione e dal 5, 4… si passa al 1 e al GO! in un secondo. Spaesati, ci muoviamo come un’orda di barbari verso le bici e via che si va!

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Singolarmente, forse addirittura per la mia prima volta, capita che appena partiti ci sia subito un po’ di discesa da affrontare. Sarebbe una cosa normale, ma senza i freni troppo normale non lo è dato che, complice qualche furgoncino di troppo, fatico a tenere a vista i ragazzi davanti che han saputo svicolare meglio alla partenza. Al primo check ci si arriva in un fiato, da lì sarà gara vera. Anzi, fin troppo vera perché, proprio come nei club esclusivi, qui si fa selezione all’ingresso.

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Le prime rampe, infatti, sono micidiali: i tratti oltre al 10% non si contano ed in fissa (oggi avevo un prudente 47/18) sono tutte rasoiate nelle gambe. Più per cocciutaggine che per vero e proprio vantaggio, non voglio scendere di sella, almeno non ora e do tutto me stesso per tirare su letteralmente la bici fino allo scollinamento del forte Begato. Sono passati solo dieci modesti chilometri dalla partenza ma ho già le gambe che chiedono pietà, nel primo tratto pianeggiante e tranquillo la bici mi sembra andar da sola tanto è stato lo sforzo.

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Ho chiaro in mente che la gara è ancora tutta da correre, i miei muscoli son di parere contrario, ma la testa dice avanti, andiamo a scoprire cosa c’è ora! E qui arriva il bello.

Arrivo al check e, dopo due improperi verso l’organizzazione, rea di averci mandato a soffrire su quelle rampe, mi sento dire: “occhio a dove mettete le ruote che inizia lo sterrato!”. Beh, ancora non lo so ma da qui in poi sarà come buttarmi in un giro sull’ottovolante. Non avevo studiato gran che il tracciato (tanto ci avrebbe pensato il Garmin a dire dove andare), ma avevo preparato minuziosamente la bici. Dato che come si suol dire “squadra che vince non si cambia”, avevo lo stesso gruppo guida dello scorso anno, ovvero un granitico stem da 110mm ed un esagerato riser da mtb largo ben settanta centimetri con alle estremità due bei manopoloni da bmx.

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Se questa configurazione sul mio Vigorelli steel si era già guadagnata la giornata, permettendomi un buon braccio di leva nello spingere con tutto il corpo nella salita precedente, ora si rivelerà per tutto quello che di buono lo caratterizza e penso: “beh, se hai il manubrio da mtb e sei su uno sterrato, dacci dentro e guidala come guideresti una mtb!”. Detto fatto, passata la prima timidezza nel sapermi con una bici da velodromo su di una strada sterrata ligure, guardo avanti, spingo sui pedali e percorro i cinque chilometri più divertenti dell’ultimo anno. Più cerco il limite di bici/gomma/gambe, più quel limite si sposta in avanti. Mi si dipinge un sorriso, probabilmente ebete, sulla faccia perché sto vivendo un mix di adrenalina e divertimento che nemmeno creandolo in un laboratorio sarebbe stato così perfetto. Una parte di me inizia a fantasticare sul come sarebbe bello se questo tratto di gara durasse altri 20-25km così fino all’arrivo, sarebbe un sogno!

Chiaramente se i sogni finiscono all’alba, oggi il piccolo sogno finisce al ritorno del bitume. Dopo poco ho il check n°3 con nuove indicazioni: “da qui occhio che la discesa è tecnica”. La affronto senza prender grossi rischi, per quanto sia sicuro scender con una bici senza freni giù per i tornanti. Non è un tratto lungo e per fortuna l’orario è tale da farmi incontrare poco traffico ed in breve son già al check successivo ma qui, nuova sorpresa!

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Mi indicano quello che per un automobilista potrebbe essere un passaggio pedonale o poco più. Io stesso chiedo conferma un paio di volte ed al secondo ok, guardo cosa mi è capitato sotto le ruote: sono sul sentiero (o se volete single track, che fa più figo) dell’antico acquedotto di Genova.

A mente fredda, ci capitassi di nuovo, questo sentiero sarebbe, per le mie capacità ciclistiche, assolutamente al limite della praticabilità: stretto, lastricato in pietra, con quasi sempre da un lato il muro e dall’altro una scarpata verticale di almeno un paio di metri. Probabilmente ne avrei paura, lo affronterei irrigidito e quasi sicuro mi farei male o andrei ad una velocità ridicola, ma non oggi. Oggi è gara, oggi trovo il modo di far le cose nel verso giusto quindi sguardo in avanti, testa focalizzata sul percorso e via. Non sono velocissimo ma di nuovo mi sto divertendo come un bambino a far questa strada sbagliata con una bici sbagliatissima. Verso la fine mi raggiunge il mio amico, nonché compagno di trasferta, Marco e da lì, esattamente come lo scorso anno, resteremo insieme fino alla fine.

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Passato questo secondo rollercoaster, ci rituffiamo in città, ma non è finita ovviamente, anzi, come nelle vere corse, l’asperità finale è quella che decide il podio e qui non si fa certo eccezione. Avevo dato un’occhiata alla salita del monte Fasce e non mi ero preoccupato troppo stante pendenze non estreme e strada piuttosto larga. Ovviamente mi sbagliavo.

IMG_5770Iniziamo a scalare e, nonostante la salita si confermi pedalabile (nel senso che lo sarebbe con una normale bici da corsa), le gambe iniziano a chiedere il conto di tutto quanto hanno sin qui subito. I chilometri a salire son quasi dieci e dopo i primi 3km le rampe al 7-8% iniziano a sembrare dei muri, avanzare a zig-zag diventa indispensabile per non “piantarsi” e mantenere una cadenza accettabile.

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Continuo a ripetermi come un mantra: “adesso vedrai i primi che scendono, adesso vedrai i primi che scendono…” e invece no. Passano diversi chilometri e mi ritrovo da solo, con i miei pensieri e la mia fatica da trascinare in cima. Fa sempre più caldo e per giunta ho finito l’acqua, inizio a darmi dei mini traguardi mentali per render sopportabile la ciclo-tortura. Mi basta inquadrare un albero o un masso e quello diventa il sub-checkpoint da raggiungere, il metodo funziona. I tralicci dei ripetitori in sommità si fanno sempre più vicini, ma non è ancora fatta, vedo Elia venirmi incontro in discesa, il primo è lui, lo incito con quello che mi resta della voce e arrivo dopo poco all’ultimo bivio verso la cima.

7G5A2039Da lì sarà una inevitabile passeggiata, come grossomodo tutti gli altri corridori, fino in punta. Aggrappato al manubrio trascino su la bici, come se stessi scalando non il monte Fasce ma il monte Fato di Mordor, portando il mio pesante fardello. Il bello è che in cima oltre ad una provvidenziale bottiglietta d’acqua c’è una vista mozzafiato che mi ristora anche lo spirito. La gara non è ancora finita ma son qui, intero, senza crampi, la bici è ok, la salita per oggi è fatta.

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Marco mi ha aspettato e con lui affronto la discesa, che sarà meno difficile di quanto temevo. Lui, da fuori gara, ha il freno e mi aiuta nell’impostare le traiettorie, io riesco ad allentare un po’ la tensione e godermi anche questo tratto di discesa brakeless, finalmente. Dopo Elia avevo visto scendere anche Giacomo ed Alex e, dato che andar forte senza i freni non è il mio forte, ero convinto che qualcuno mi avrebbe prima o poi raggiunto. Con quel pensiero fisso in testa, affronto gli ultimi tre chilometri come se fossero i primi, non mi risparmio nemmeno per un metro e, dopo qualche incrocio preso a modo, mi ritrovo in via degli Argonauti; sento l’odore di mare farsi più intenso. Ci sono, il molo è davanti a me ed il blu del mare riempie i miei occhi. Quarto, incredibile.

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Sul podio di cinque corridori, tre sono miei cari amici e già questo fa direttamente scolpire nella mia memoria ogni singolo istante di questa giornata.

rank Menzion d’onore a Marco da Barcellona (5°) che per esserci oggi si è sobbarcato due viaggi da 13 ore in autobus, ma è come me contento come un bambino per aver onorato quella che resterà, negli animi di tutti noi, una corsa da ricordare, ognuno a suo modo, ognuno per quel che ha dato e preso in quegli interminabili chilometri su e giù attorno alla RE(S)PUBBLICA marinara di Genova.

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Vi racconto delle mie bici – puntata 7 di (ehm…) 9: la prima MTB non si scorda mai…

… e nemmeno si hanno la forza ed il coraggio per venderla, perchè come diceva mio zio Paulin, spentosi a 98 anni, “prima o poi tutto torna di nuovo utile!”

Facciamo prima un piccolo salto nel passato non troppo remoto. Quando sul finire degli anni ‘80 l’Italia fu investita dall’onda delle mountain bike. Complice anche quel geniaccio di Colombo con la sua rampichino (sogno proibito di molti di noi), tutti noi ragazzini su 12-13 anni passata la sbornia da BMX volevamo avere qualcosa da pedalare di serio e robusto per sfidare i sentieri in montagna. All’epoca vivevo al centro della Valsusa e dai monti ero letteralmente circondato. La smania (con pericolosità annessa…) del motorino era alle porte e per tamponare la situazione i miei decisero di cogliere la palla al balzo e regalarmi una bella mountain bike di modo da sopirmi altre voglie motorizzate. Ora non ricordo su base di quale dritta, ma andammo a prendere la bici direttamente in una fabbrica nella prima cintura torinese. A detta di chi ci accolse, loro in ditta ricevevano gli stock di telai e componenti, pre-assemblavano e successivamente mandavano da altri rivenditori i quali ri-marchiavano le biciclette con conseguente ricarico monetario per la vendita al dettaglio. Mi sentivo dunque un privilegiato e, ovviamente, non scorderò mai il prezzo che pagammo: un milione di lire! Come dei novelli Bonaventura  al contrario, tornammo a casa con questa bici, bianca, trasmetteva una sensazione di grande solidità ed i componenti mi parevano così esotici, con quel marchio che veniva dall’estremo oriente: Shimano.

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Fu la prima bici che mi donò la vera sensazione di libertà, le mie estati in alta valle assunsero i toni di avventure quotidiane, la montagna mi entrò nelle ossa definitivamente. Scoprii anche, in enorme anticipo sul ciclismo ufficiale, il colle delle finestre all’epoca frequentato solo da montanari e motociclisti rigorosamente tedeschi, fu una vera e propria epifania.

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Gli anni passarono e, anche se offuscata dal mio lungo periodo come motociclista, lei c’era. Silente in garage e sempre pronta per una pedalata che spezzasse la monotonia. Venne poi la sua riscoperta, dopo i primi anni di nuova (mia) era pedalatoria, tramite la prima grande trasformazione in singlespeed. Gli ingredienti erano già praticamente tutti lì e la semplicità del mezzo mi fece ri-innamorare del pedalare nei boschi e sui sentieri. Certo pesante, impacciata, ma con un nuovo manubrione dal giusto rise e un rapportino agile agile è tornata a divertirmi.

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24C1804_08635La sorte a voluto che, in un outlet online, io sia riuscito a trovare l’occasione dell’anno e a far mia una mtb da 29 pollici singlespeed nativa, ne parlerò a breve. Questo relegò di nuovo la bianchina in un angolo, la cosa certa è che, nonostante la sua evidente vetustà e ancorchè del tutto senza mercato, mi era/è comunque impossibile venderla, prestarla, regalarla ecc… non si può, non si fa.

La aggiornai, pensando di darle una ulteriore svecchiata, passando alle 8 velocità posteriori abbinate ad una guarnitura con tripla corona e comandi al manubrio. Non male ma aveva perso, forse per sempre, l’indole ad essere una bici per i boschi e le montagne, stante le mie parallele esperienze con l’altra mtb del garage.

Faccio un piccolo inciso. Se nel campo delle bici da corsa le innovazioni davvero determinanti negli ultimi 20 anni si contano sulle dita della mano (comandi cambio integrati ai freni, pedali automatici, sterzo maggiorato e…), sulle mtb i passi evolutivi sono stati enormi e tutti imprescindibili.  Una bici da corsa di 20-30 anni fa è elegante, si fa ammirare e pedalare con gusto. Una mtb di 20-25 anni fa intenerisce un po’, forse, ma attira pochi sguardi e non scatena alcuna voglia di lanciarsi con essa giù per i pendii. Finì dunque che la mia bianchina mise su un portapacchi, un seggiolino per bambini e nonostante tutto per sei lunghi anni divenne la gioia dei miei figli dove assaporarono per la prima volta le gioie di correre con il loro papà e sentire il vento sul viso, conoscendo la dea della libertà a forma di bicicletta.

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Passata anche questa era tornò in un angolo del garage. I componenti funzionavano bene, ma aveva nuovamente perso la sua ragion d’essere e rimase lì ferma per ben due anni, i copertoncini si screpolarono, polvere e ragnatele giocavano tra loro a rimpiattino sui tubi del telaio.

Poi per caso, ma nulla accade mai per caso, nel mio periodico consultare lo splendido blog di cycleExif, che per inciso ospita anche una mia bici, mi imbatto in un progetto in grado di folgorarmi a prima vista: la cosiddetta “urban cruiser”. In questo caso veniva messa sotto i ferri una vecchia mtb Moser e ne usciva un mezzo strepitoso quanto insolito.

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Nel mio piccolo volevo, anzi dovevo, provare a replicare l’esperimento e vedere cosa ne poteva uscir fuori. Primo passo: smontare tutto!

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Un paio di componenti restavano colonne portanti, ma nel frattempo mi trovavo nella mia piccola officina degli orrori mi ritrovavo un gruppo Campagnolo ad 8 velocità che era perfetto per dare il via alle danze.

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Altra cosa: non poteva restar così verniciata e con addosso i segni del tempo, il bianco non è un colore adatto alle bici e lo spessore di questa era anche esagerato. Portai il telaio a sabbiare ed il risultato fu per me a dir poco sorprendente!

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004Quello che ho da sempre tra le mani è un ottimo e robustissimo telaio in tubazioni Tange, realizzato da sapienti mani artigiane con congiunzioni e saldature ad ottone davvero ammirevoli! La cosa mi diete l’ultima spallata motivatrice per affrettare i tempi e mettere a punto gli ultimi dettagli per finalizzare il progetto. La mia metà Laura, che sarà anche lei utilizzatrice di questa bici, scelse il viola elettrico e, dopo qualche settimana, il telaio era pronto per il montaggio!

130Affidai il tutto al mio amico Enry che, oltre ad essere un ottimo meccanico, per questi esperimenti qui, degni del miglior Sheldon Brown, ci va proprio a nozze.  Nel giro di pochi giorni e risolvendo una serie di problemi che avrebbero fatto gettar la spugna a molti, mi scrisse il messaggio della vittoria: “la tua bici è pronta”. MI precipitai da lui e fu subito, ancora una volta, amore a prima vista. Sotto una nuova veste, camuffata da cruiser urbana la mia vecchia mtb torna oggi a vita nuova, andando a riempire quel piccolo ma fastidioso vuoto che c’era tra le mie bici. Una splendida via di mezzo tra la scattofisso da città e la bici da ciclocross, il tutto rimiscelato per essere insensibile al pavè ed alle condizioni disperate di certe nostre vie cittadine.

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024Le prime pedalate sono confortanti, lei è comodissima ed asseconda le manovre con grazia, non si lascia mai scomporre da buche e tombini, viaggia sicura e restituisce tranquillità a chi la pedala. La piega da corsa offre un buon numero di prese per le mani a seconda della situazione ed è stretta quanto serve per incunearsi tra le onnipresenti file di macchine agli incroci. Mi piace, mi diverte e mi fa felice sapere che, anche se sono solo oggetti, avere una storia legata ad essi li fa sembrare parte del nostro viaggio e non dei semplici strumenti con cui viaggiare.

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l’acciaio per il ciclisti del XXI secolo. Bike test: @TredDesign callithrix #bikeporn #steelisreal #Tred

Occasione di quelle ghiotte, dopo esserci conosciuti (e piaciuti) qualche mese fa al loro debutto nel campo delle bici da criterium a scatto fisso, ieri ritrovo l’intero (o quasi) catalogo bici della T-red bike in prova vicino a casa mia, da Mangone bike.  Ecco come è andata.

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Arrivo al parcheggio vicino al negozio, ammetto che non lo conoscevo prima di questa occasione, guardo all’insù e vedo un po’ dio nubi minacciose addensarsi sopra di me. Niente paura, oggi si testa una bici quindi più diverse e “meno ideali” sono le condizione e meglio è, da un certo punto di vista. Entro e ritrovo Erica e i ragazzi della T-red Design che stanno armeggiando sulle loro bici, tutte esposte di fuori dal negozio. Mi aggiro attorno a loro, c’è tutto il campionario dei quattro materiali dedicati al ciclismo (acciaio, alluminio, titanio e carbonio) ma vengo subito fulminato dalla bellezza delle saldature ad ottone (fillet brazed per i più tecnici) e non posso far altro che dire: “voglio questa”. Mia per un paio d’ore e pronta a farsi strapazzare, per quanto la mia mediocre gamba conceda, nelle strade che più conosco.

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Pochi attimi per montare i miei pedali e regolare la sella e via che si va. Da subito interviene la classica maledizione di ogni ciclista praticante, ovvero l’immancabile vento contro. Se poi uno, come nel mio caso, è nato e cresciuto in una valle non può far altro che adattarsi e gioire le rare volte in cui magicamente il vento è a favore. Non è il caso di oggi, anzi per magia sarà contrario anche al ritorno, ma non corriamo troppo.

L’adattamento alla bici, nonostante ci siano cose nuovissime per me e distanti dai miei canoni di bdc come il gruppo Shimano ed i freni a disco idraulici, è decisamente rapido. Mi sento da subito ben “dentro” il mezzo e non semplicemente “sopra” a pedalarci. Le proporzioni e le geometrie sono dichiaratamente pensate per le lunghe distanze e la massima versatilità e questo carattere viene fuori subito senza velleità diverse che non siano quelle per cui questa bici è nata.

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La forcella ha un’inclinazione piuttosto marcata ed è di tipo conico, questo mette in evidenza una grande stabilità e precisione di guida all’avantreno. Me ne accorgo subito provando a fare qualche rilancio in pianura: l’avvio del rilancio è molto rapido, si avverte la ottima rigidezza del nodo delle pedivelle e una grande efficienza del carro posteriore nel riportare tutto alla ruota. Questa prima sensazione molto sincera, con il crescere della velocità viene come leggermente attenuata dal lavoro dell’anteriore che tende a stabilizzare la bici sacrificando inevitabilmente quello che è l’effetto di un lancio in volata. Ma è comprensibile è giusto in questo caso, questa volutamente non è una bici da dare in mano ad uno sprinter!

La sicurezza con cui si affrontano le svolte o i curvoni veloci è eccellente, complici anche ruote al di sopra di ogni sospetto (full carbon a profilo differenziato 60-35mm) e tubolari top di gamma da 25mm.

Ma per me non può esistere test senza l’inscindibile binomio salita/discesa ed ecco che attacco le prime rampe del col del Lys per capire il comportamento in salita. Il primo approccio non è dei migliori, ma solo successivamente mi renderò conto che in realtà ero io a sbagliare, ora vi spiego. Per chi conosce la strada, l’avvio del Lys da Almese non ha rampe dalle pendenze proibitive e soprattutto non è costante, sicchè il classico gioco è quello di forzare sulle pendenze maggiori e rifiatare nei tratti a minor pendenza. Provo quindi ad agire nello stesso modo, cercando il classico rilancio da in piedi dove le pendenze aumentano. Se, come mostrato poco prima in pianura, la prima sensazione è di buona rigidezza del comparto posteriore  e di positiva resa generale, le geometrie fanno sì che questa non sia una bici da “attaccanti” sullo stile reso celebre da Pantani, tutto nervosismo e rilanci. Questa è una bici per lo stile (permettetemi il paragone) alla Ivan Basso, ovvero per chi riesce ad affrontare le salite con un ritmo via via crescente ma sempre progressivo.

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Per fortuna che la seconda parte della salita è conformata in modo da fare emergere alla grande questo aspetto. Svolto infatti per la frazione di Celle dove, a meno del primissimo tratto dove ancora arranco, le pendenze di fanno più costanti e progressive. A questo punto innesto un rapporto che mi garantisca una pedalata agile e inizio a fare ritmo, come si dice in gergo. Ecco, è come se il telaio mi avesse sorriso e detto: “oh, hai capito finalmente da che verso prendermi, visto!?”. La bici quasi si trasforma, la posizione in sella data dalle geometrie è tale per cui sento tutte le fibre muscolari delle gambe collaborare insieme per dare trazione. Non si lavora di quadricipiti qui, ma tutta la muscolatura delle gambe è agevolata nel dare il suo contributo ed il risultato è ora un’ottima velocità nel salire sulle rampe! Le corone semi compatte 52-36 ed il vasto pacco pignoni danno un’ampia scelta di rapporti e trovo sempre quello adatto fino alla cima. La bici scorre benissimo e sento di avere ancora una buona riserva di potenza per forzare l’andatura, cosa che faccio nel tratto finale ma sempre da seduto e sempre con una buona agilità, il telaio mi asseconda alla grande.

 

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La seconda parte, non meno importante, è la discesa e qui parliamo di discesa tecnica, stretta e con asfalto in mediocri condizioni. La callithrix è dotata di impianto frenante a disco idraulico con rotori da 140mm di diametro, soluzione già ben orientata ad una bici da corsa stradale a differenza di quanto da me testato lo scorso anno. Permangono però alcune mie perplessità anche dettate dal mio personale modo di interpretare le discese. La frenata prima di un tornante o di una curva cieca è chiaramente molto pronta e avverto la grande riserva di potenza frenante, ma il feeling con il freno posteriore non arriva ed è difficile capire quando si è prossimi al bloccaggio. Oltre a questo, la mia classica abitudine (derivata dai tanti anni passati sulle moto) di entrare in curva con il freno posteriore ancora “pizzicato” per dare stabilità al mezzo qui ha un effetto quasi opposto e mi rendo conto dopo qualche tornata che la bici è molto più stabile e docile alla discesa in piega se i freni proprio non li tocco a bici inclinata. Chiaramente, non fraintendete quanto fin qui scritto, la bici è eccellente in discesa, tanto che poi il cronometro dirà che ho fatto uno dei migliori miei tempi su questa discesa, senza nemmeno forzare o prender rischi anzi, restando sempre molto “morbido” nella condotta.

Un punto a grandissimo favore è l’assorbimento delle asperità, sotto due diversi aspetti per altro. Il primo è il ridurre e di molto, complici anche piega e reggisella in carbonio di alto livello, tutte le vibrazioni trasmesse dall’asfalto che in questo caso è molto sgranato e provato da anni di bassa manutenzione; il grosso del lavoro però lo fa il telaio, progettualmente  perfetto per le nostre strade. Anche la scelta delle saldature ad ottone rende ancora più versatile la bicicletta, in grado di digerire letteralmente tutto quando gli viene proposto in termini di fondo stradale. Il secondo aspetto è l’ottimo assorbimento anche delle asperità secche come buche o stacchi di asfalto netti, questo emerge in modo ancora più netto in fase di frenata ad avantreno caricato, dove l’eventuale buca (e ne ho prese un tot mi o malgrado) non fa minimamente scomporre la bici e questo dona grande sicurezza e tranquillità a chi la conduce.

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L’ultima parte è il mio rientro a Rivoli, facendo tesoro di quanto imparato nei tratti precedenti, mi metto a pedalare di ritmo agile e costante, sentendo da subito la bici portarsi ad un’ottima velocità di crociera e, altra nota importante, non mi faccio mai impensierire anche dalle numerose folate di vento laterale, l’insieme dei profili differenziati dei cerchi e del telaio non rendono mai la bici troppo nervosa o instabile ed il controllo e semplice e preciso, un grande aiuto a chi vorrà fare molti chilometri in sella a questo acciaione di alto livello.

Arrivo infine al negozio senza essermi accorto di aver un po’ sforato i tempi concessi, ma mi perdonano subito e il resto della serata si svolge parlando di progetti futuri e degli incredibili episodi appena accaduti al tour de France. Rientro a casa ancora più convinto, se mai ce ne fosse stato bisogno, che anche in questi tempi moderni l’acciaio è ancora un nobile materiale per realizzare bici di altissimo livello. buone pedalate!

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Vi racconto delle mie bici – puntata 3 di 7: +ferriveloci+ modello B road #menridesteel

Come si suol dire, passione chiama passione… ed alla fine quello che per due ragazzi dinamici ed intelligenti era solo una passione poi diventa un lavoro.

Come al solito le cose non succedono mai per caso. Lo spazio web di fixedforum, in mezzo a ritrovi, opinioni e risate ha anche l’immenso pregio di far crescere le persone. Da quella comunità nasce il progetto ferriveloci: dalla volontà di Paolo e Gianmaria di creare un qualcosa di fresco e dinamico, seppur legato alla grandissima tradizione telaistica italiana. Uno dei loro pregi è quello di aver iniziato con umiltà, seguendo orme ed insegnamenti del maestro Mario Camillotto, ma nello stesso tempo il loro obiettivo è non solo quello di essere i custodi di tale arte, ma di rinnovarla, di osare  e di dare vita ad un nuovo marchio che faccia guardare a se non solo i conoscitori della bici classica in acciaio ma anche, anzi soprattutto, chi cerca sia una bici performante, sia un oggetto personale, unico e dal valore che va al di là del puro prezzo commerciale.

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Così inizia la loro avventura, partendo dalle bici da pista. Poi accade che, parlandosi e confrontandosi, la voglia di fare un telaio da corsa è tanta. Loro non si tirano certo indietro per questa nuova sfida, ma come è logico le incognite non sono poche e si fa strada da subito la necessità di passare per un prototipo da poter testare, stressare e porre come base per le prime produzioni.

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Ed ecco che entro in gioco io. Una delle mie fortune, oltre ad essere di fatto nel posto giusto al momento gusto, è andare in bici da molto ma anche l’esser andato tanto in moto, che mi ha fatto sviluppare un po’ di sensibilità in più della media rispetto alla sensibilità di guida e, di riflesso, di riuscire a portare abbastanza vicino al limite (parlando di amatori) una bici in discesa, di modo da capirne ed interpretarne le caratteristiche proprie.

All’atto pratico, inoltre, mi ritrovavo con un telaio da corsa un po’ datato, pur essendo un buon Dedacciai di quelli ancora costruiti in Italia, ma con una buona componentistica come gruppo strada (un immancabile Campagnolo, nella fattispecie un Centaur carbon) e con un discreto parco ruote, di modo da aver la possibilità di capire anche se ci fossero dei cambi di comportamento a seconda del set utilizzato.

2279La mia unica richiesta ai ragazzi di ferriveloci fu ovviamente la misura, una classica 54 quadra, stante la mia corporatura media. Detto fatto e si misero subito al lavoro. Base di partenza la serie di tubi Columbus EL che era ancora in loro mani benchè la produzione di tale set fosse da tempo cessata. Io chiaramente non stavo nella pelle per avere anticipazioni, anteprime e tutto quello che potesse alimentare la mia fantasia e le mia voglia di averlo, montarlo e provarlo.

 

Il risultato è stato strabiliante. Nasceva un telaio da corsa, ma aggressivo come un telaio da pista, con gli storici angoli da 74° sia sul tubo sterzo sia sul verticale, con il movimento centrale alto 1.5cm in più del normale ed una distribuzione dei pesi unica, per una bici unica.

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Il bello di collaborare con un telaista (in questo caso una coppia) è che non solo conosce le tue misure antropometriche ma conosce le tue caratteristiche come ciclista (non oso scrivere corridore, quelli sono altri) e fa sì che si faccia interprete dello stile di pedalata e crei, nel vero senso della parola, un vero e proprio prolungamento del tuo corpo, esaltando le tue caratteristiche fisiche ed appianando i difetti. Personalmente mi piacciono i giri corti e tirati, i cambi di ritmo e i rilanci proprio come nelle criterium a scatto fisso. In più amo alla follia la salita, in ogni sua forma e dimensione: dalla montagna over2000 affrontata con rispetto in lunghe ascese a ritmo costante, fino agli strappi collinari: brevi, intensi e da affrontare al meglio per non finire con le gambe in crisi ancora prima di arrivare alla meta. Questo è stato magistralmente tradotto in un telaio non solo bello (a mio parere, ma anche secondo persone più autorevoli come mr. CycleExif) ma soprattutto agile, pronto, nervoso e da domare ma che una volta capito sa dare emozioni a chi lo pedala.

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Ho sperimentato il più possibile di situazioni e percorsi con tutte le ruote a mia disposizione: dalle alto profilo in carbonio, passando per le medio profilo rigide e con pochi raggi, fino al bassissimo profilo leggero ed improntato alle scalate. Devo dire che ad ogni cambio ruote si rivela un carattere molto diverso della bicicletta, come una donna che puoi incrociare al parco con le sue scarpe da running e poi rivedere la sera in tacco 12, è sempre la stessa ma cambiano tante cose in lei, nel suo portamento e nel suo stile.

2431Così questa ferriveloci modello B sa essere gentile e perdonare qualche errore di traiettoria con le basso profilo, oppure farti viaggiare sul filo del rasoio alla media dei 40 orari sfidando i tuoi compagni di allenamento, che sì sa che ogni allenamento è una gara, ma ogni gara è un allenamento.

Nelle discese tecniche e nei cambi di direzione è fulminea come una supermotard; l’anteriore resta granitico e fedele alla traiettoria impostata, per contro bisogna saperla impostare a modo per avere il suo pieno appoggio: le incertezze non piacciono nemmeno a lei. In salita sa farsi amare, è reattiva ed accompagna la scalata come non pensavo fosse possibile per un telaio in acciaio, materiale che ancora oggi si rivela con delle potenzialità incredibili in campo ciclistico.

Ho ancora molto da sperimentare e provare con lei, mi mancano uscite oltre le 5 ore e gare in linea di quelle da “coltello tra i denti”, ma sono sicuro che ci sarà da divertirsi, d’altronde ci conosciamo da nemmeno un anno e di strada da fare ne abbiamo entrambe molta!

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Vi lascio con le belle foto che il mio amico Matteo Zolt ha fatto nella splendida cornice della strada panoramica di Superga qui a Torino.

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