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nulla accade mai per caso, la mia #MiTo2016 a #scattofisso by @vostokmilano #milanotorino

Che cos’è un sogno? Spesso gli scienziati dicono sia una nostra proiezione mentale o un metodo che ha il nostro cervello per scaricare i dati superflui immagazzinati nella memoria durante la giornata. Ma non è tutto, non può essere tutto. C’è ancora quell’alone di mistero, oltre la scienza, che fa sì che immaginando e spingendo oltre i nostri desideri, focalizzandoci su di essi ogni giorno, coltivandoli, possa far avverare i sogni, un giorno…

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… ed è il caso della passata domenica, dove, nel primissimo mattino, sotto un grigio cielo milanese, mi ritrovavo in un deserto corso Buenos Aires

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Che poi, corso Buenos Aires a Milano può davvero definirsi un piccolo pezzo di New York catapultato in Italia, solitamente caotico e trafficatissimo, mentre ora mi sembra di esser dentro una puntata di “the walking dead”, silenzio surreale. Per fortuna, però, non sbucano zombie affamati a ostacolare il mio cammino, ma qua e là qualche sparuto pedone si intravede, lasciandomi il dubbio se si sia svegliato presto come me o stia rientrando da una intensa nottata tra i locali della metropoli meneghina…

Questa situazione quasi surreale, gioca tutto a mio favore, riesco infatti ad avere il mio momento di concentrazione massima proprio ora, quando, con una certa ridondanza linguistica, sto andando come l’anno scorso al Vigorelli in sella alla mia (Cinelli) Vigorelli. Oggi si corre da Milano a Torino con la scatto fisso. La bici scorre silenziosissima, fin troppo. Mi trasmette la giusta fiducia facendomi comprendere che si digerirà tutti i 150km dato che anche il pavè di porta Garibaldi scorre via senza che lei si scomponga troppo, nonostante il pieno carico delle due borracce a bordo.

Arrivo al Vigorelli e vedo già tanti volti amici e tante bici, tutte tra loro estremamente diverse, accomunate solamente dalla trasmissione a scatto fisso. C’è di tutto: acciaio (tanto), alluminio, carbonio (poco), alto/basso profilo e manubri di tutte le fogge. Io, come gli altri anni, mi affido all’assetto da crono, reso solo un minimo più comodo da uno spessore da 5 mm sotto lo stem: non mi ha mai tradito e c’è sempre stato un momento, breve o lungo, dove mettermi giù sulle appendici è stato determinante.

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Non siamo moltissimi a partire, circa 65. Le ultime due edizioni funestate dal maltempo, e l’esplosione del fenomeno criterium, hanno un po’ messo in secondo piano quello che era l’appuntamento principale della stagione per gli amanti del fisso a pedali. Iscrizione rapida, il tempo di mettermi nelle tasche gli attrezzi, telefono e qualcosa da mangiare e via che si parte, ci vediamo a Torino!

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L’uscita da Milano è sempre festosa, siamo corridori sì ma anche una sorta di massa critica che afferma la voglia di riprendersi le strade, almeno alla domenica mattina, dove salvo rare eccezioni nessuno può veramente dire di aver fretta in auto, per andar dove poi? al lago o in montagna? Vige ancora, per fortuna, la regola di non belligeranza fino ad Abbiategrasso, tra i nuovi della MiTo ci sono anche le migliori gambe del panorama, ad esempio il mio amico Torinese Luca C. con il suo STØRM, Fabio A. di Cykeln, il grandissimo “Guanda” che sprizza entusiasmo da tutti i pori ed il suo amico Michel Chocol, vero atleta di alto livello, vincitore di svariate granfondo e dal fisico perfetto. C’è poco da fare, i corridori veri li riconosci già da quando scaricano la bici dall’auto per schierarsi in griglia, e lui non fa eccezione, armonioso nella pedalata e sicuro di potersi giocare le sue carte. Prima della partenza mi chiede anche qualche indicazione sulla strada da seguire una volta arrivati a Settimo, e gli mostro sul suo cellulare dallo schermo enorme (saranno 6” minimo) quella che è una via chiara e facile da riconoscere per arrivare in corso Casale a Torino.

Passati i primi 50km si inizia a far sul serio, come era naturale aspettarsi. Nessun “break away”, come si usa dire in gergo, ma tutta una serie di allunghi che decimano il gruppo (a Morano perdiamo ad esempio Matteo RR e Paolo tZE alla loro prima partecipazione) . Michel C è risulta quasi affascinante da vederlo pedalare, sembra non far fatica, ha una progressione che fa male agli avversari, e rimane impassibile in volto: non fa capire se quello è il suo limite oppure con noi sta solo giocando come il gatto con i topi…

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Il vento è presente ma soffia di traverso, qualche volta di 3/4 a favore. Mi metto anche io di buona lena e faccio qualche volenteroso turno davanti, a tirare. Mi trovo sempre comodo a star sulle prolunghe, anche per tempi piuttosto lunghi, e riesco a far veleggiare i miei compagni d’avventura attorno ad una velocità di crociera di 38-40km/h. A Borgo Revel (paesino dal nome che ho sempre trovato affascinante) anche Roby D’Anna e Luca A. decidono di averne abbastanza delle “specorate” e passano, giustamente, in modalità gita sociale.

I chilometri scorrono, non sembra vero di averne fatti già più di 100, quando in allenamento già solo la metà si fanno sentire così brucianti nelle gambe: potere del gruppo, della capacità di “limar le ruote” e stare coperti dal vento, Fabio, Luca, Alberto e gli altri ovviamente lo sanno, e tutti abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare, tutto sta nel farlo al momento giusto. Per quello le gare sono così affascinanti, perchè a saperle leggere sono estremamente complesse pur nell’ estrema semplicità di andare da A a B.

Ci approcciamo all’abitato di Chivasso esattamente a mezzogiorno, ancora non lo sappiamo, ma sarà un vero mezzogiorno di fuoco! Siamo tutti convinti (ormai siamo una quindicina) di percorrere la via centrale, pavimentata in pavè e pedonale, ma che accorcia di molto l’itinerario… sappiamo che sarà chiaramente trafficata dai pedoni domenicali, quello che non sappiamo è che oggi c’è anche la fiera di paese! Apro un varco tra la folla come Mosè di fronte alle acque del Mar Rosso (passatemi l’irrispettoso paragone), la differenza è che invece dello scrosciar delle onde ci lasciamo alle spalle uno scrosciare di leciti insulti nei nostri confronti, stante l’assetto da orda di barbari con la quale svicoliamo tra folla e bancarelle. La buona notizia è che nessuno si è fatto male.

Poco prima di Brandizzo, Michel decide che è tempo di chiudere i conti e parte con uno scatto da “hors catégorie”. Come due leoni Fabio e Luca si lanciano al suo inseguimento, noi pochi superstiti (otto) li vediamo in lontananza. Fabio pare essergli in scia, ma Luca, in realtà  è più staccato. Il loro progetto dura il tempo di arrivare a Settimo: saltano entrambe, nulla si può contro l’uomo bionico! Sparisce anche dalla visuale, favorito annunciato, che credo centrerà il pronostico fatto da tutti.

Per Settimo, da sempre punto cruciale della corsa, ho in mente di mettere in scena lo stesso “show” dello scorso anno, ovvero, via pedonale (di nuovo) poi 300 metri di contromano e poi giù fino in piazza Sofia a Torino, attuando la famosa variante del cimitero. Attimo di brivido vero quando, finita la via pedonale, non mi accorgo della presenza di una catena tra due paletti che mi si para davanti: freno con pinza sull’anteriore e gambe sul posteriore, e questo basta per fortuna a non farmi fare un carpiato in avanti ma a pizzicarmi solo le dita. Sono incolume, niente paura, i battiti aumentano ma solo per colpa dell’intramuscolo di adrenalina inflitta dal momento di panico. Riesco a spostare la bici e ripartire, per il viale in contromano siamo solo io e Dario, ma gli altri, che stanno facendo il giro più lungo, si ricongiungeranno alla solita rotonda, che risulterà essere decisiva per lasciare Settimo e dirigersi verso la direzione più conveniente. 

Da qui in poi la corsa si tramuta in una velocity urbana (se non sapete cos’è, qui un prezioso link di storia…) ed emergono le capacità, mie e di alcuni compagni di avventura, di saper spingere forte sui pedali anche in presenza di traffico, semafori, rotonde e tutto il panorama di ostacoli cittadini. Non sono tecniche che si possono improvvisare, ne va soprattutto dell’incolumità di chi gareggia. Come dice Lucas Brunelle, uno che di corse urbane un po’ se ne intende, noi siamo la categoria di ciclisti che esiste negli interstizi del traffico, in quegli spazi che i più nemmeno ne immaginano l’esistenza. Negli anni di alleycat, e competizioni cittadine, abbiamo imparato invece a riconoscere quei varchi e a renderli dei posti sicuri dove stare, a concepire traiettorie sulla carta sbagliate ma nella pratica redditizie, ed è quello che fa la differenza alla MiTo, da sempre.

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L’ultimo ostacolo prima del ponte ciclopedonale del lungo Po Antonelli è l’incrocio con corso Belgio: semaforo rosso! Qui il flusso di traffico è davvero troppo veloce e voluminoso per poterlo sfidare, ci fermiamo tutti. Nel ripartire però non riesco ad agganciare il pedale, provo una volta…. due… tre, nulla! I ragazzi mi sfilano anche se siamo tutti a pochi metri di distanza, arranco, per poi finalmente sentire il “clack!” risolutivo che mi permette, finalmente, di alzarmi subito sulla sella per spingere fino all’ultimo incrocio.

Do per scontato che Luca, torinese, sappia che si deve svoltare leggermente a sinistra, invece vedo che si butta a destra, e rilancia pure! Gli altri lo seguono e trovo la voce per gridargli: “ragazzi, è di qua!!”. Mi butto al volo sul ponte, mi serve un po’ di lucidità alla fine di esso per non andar dritto giù per le scale, ma imboccare il sentiero (sì avete capito bene, sentiero sterrato in discesa lungo circa 6-7 metri) che percorro con la ruota dietro bloccata, anche per la tensione che mi sta assalendo e dalla paura di finire a terra a 150 metri dal traguardo.

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Dovrei star morbido, ma non mi riesce. Finalmente ritrovo il rassicurante asfalto di corso Casale (messo non poi così meglio del mini tratto sterrato che ho appena percorso) ed il tempo di un ultimo rilancio, e vedo che c’è solo il mio amico Filippo a presidiare il traguardo! Cerco ovunque con lo sguardo la sagoma di Michel, ma non lo vedo, non c’è, anzi non c’è ancora. Vuoi vedere che ho vinto?!

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Passano secondi interminabili prima che io realizzi che, sì, è andata proprio nel modo più sorprendente possibile. E’ andata che per arrivare primi in questa corsa non basta avere tanta gamba ed intelligenza tattica, ma anche aver pianificato un itinerario redditizio ed averlo percorso al massimo possibile, fino dentro la città, quella città che mi ha dato i natali, e che ora ammetto mi sta regalando la mia gioia sportiva più grande. Albo d’oro, e dati alla mano, sono il primo torinese ad aver vinto questa splendida classica del ciclismo alternativo e, ciliegina sulla torta, segno anche il record assoluto della gara con 4ore e 8 minuti, 5 minuti meno dell’edizione del 2013, l’ultima asciutta dopo le funeste 2014 e 2015.

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Aspetto con sguardo tra il sognante e il divertito l’arrivo di tutti i ragazzi che hanno partecipato, li vedo tutti sorridenti, così come mi conferma l’organizzatore Marcello. Per il prossimo anno, che sarà il decennale della MiTo, come della redhookcrit, guarda caso, tutti ci impegneremo a far sì che si parta da sopra il  legno del velodromo Vigorelli per giungere, “scorrendo”, sul cemento del Motovelodromo Coppi e poter così celebrare questi due monumenti, e dar merito a chi anche negli anni bui non ha mai permesso che andassero definitivamente perduti.

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Contro se stessi e la natura, da Milano a Torino senza mai smettere di pedalare, di nuovo.

mi-to-2015-300x300Come ho sentito commentare da qualche amico che la sa lunga, probabilmente in tutto il panorama ciclistico mondiale non esiste una cosa come questa. Una gara non gara (ricordatelo bene) che va da A a B (come quelle vere, non ad anello come le granfondo…) con delle bici nate per correre in pista che invece per un giorno collegano idealmente proprio due tra i velodromi più celebri della storia. Dal Vigorelli di Milano ad Coppi di Torino, senza poter mai smettere di pedalare.

 

Sapevo benissimo che avrebbe piovuto, lo mettevo in conto già da qualche giorno prima dove con più minuziosità del solito mi ero dedicato ad ottimizzare posizione ed accessori sul Vigorelli per fare in modo che la bici fosse perfetta per fare quei dannati/meravigliosi 150km. Con questa sarà la quarta volta che prendo parte alla Milano-Torino, qualcosa me l’ha già insegnato questa gara, anzi molto, ma come dice il patron (mente ed organizzatore) ogni volta la MiTo è qualcosa di diverso, compresa la strada che fai per entrare in Torino. e Marcello non sbaglia, nemmeno questa volta.

Arrivo puntuale e vedo già tante facce conosciute ed amiche e qualche faccia nuova assolutamente ben venuta dato che ha fatto molti  più chilometri di me per esser alla partenza stamane e ne farà ancora moltissimi in più per tornare poi a casa.

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Dopo qualche istante arrivano gli ultimi ritardatari, chi un po’ raffazzonato ma con il sorriso a 32 denti per il solo fatto di esser qui, chi serio e determinato a fare “la gara” dando tutto se stesso dopo mesi di allenamento finalizzati anche all’appuntamento di oggi.

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Partiamo, pioviggina appena. Siamo pochi, meno di sessanta contando che ci sono state edizioni con partecipanti doppi (questa è l’ottava, per la cronaca). Ma si respira quel frizzantino nell’aria che solo chi parte per una vera avventura riesce a percepire. L’uscire da Milano verso la grande Pianura mi emoziona. Là fuori non ci saranno le schiere di palazzi a proteggerci dal vento, saremo soli con noi stessi e nessuno sa quello che si troverà ad affrontare e nemmeno chi avrà al suo fianco per supporto e se invece sarà da solo in mezzo al nulla. Battute, scherzi, commenti sulla bici e sul rapporto scelto per oggi riempiono l’aria. Come sempre ho il mio fido 49-15 ed una catena nuova e bella che fa emettere solo un fruscìo dalla trasmissione. Il bello dello scatto fisso è anche questo, una bici semplice e solida, dove udire uno sferragliare non è sinonimo di qualcosa di imperfetto ma di una rottura imminente. Arriva il primo paese, Abbiategrasso, dove la regola ferrea e non scritta vuole che si dia il via alle danze, ovvero si conceda totale libertà sul come interpretare la gara, chi si dà battaglia, chi corre, chi va al piccolo trotto e chi passeggia… Ognuno con la stessa dignità e rispetto da parte di tutti.

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Vedo avanti a me un primo gruppo iniziare a prendere vantaggio. Inizia a sentirsi un vento di traverso freddo e un po’ più di pioggia. Non ho le gambe (credo) ma soprattutto non ho la testa per andare a fare subito una scannata e tentare di agganciarmi a quel primo gruppo, non oggi, non ora che mancano 130km al traguardo. Accelero comunque ed in breve mi trovo nel gruppo di Marcello menthos ed altre gambette buone. Sarà questo il mio plotone, mi sento a mio agio e vedo da subito una buona collaborazione e veleggiamo, è proprio il caso di dirlo, ad una velocità attorno ai 36 orari.

Poi come in ogni buon film, un piccolo grande colpo di scena. Banale quanto inevitabile, la mia vescica mi ordina di fermarmi, subito! Ogni minimo scossone dell’asfalto è come un pugno nella pancia. Raduno le idee e le forze, avviso la testa del gruppo, e faccio una tirata di un minuto per poi potermi fermare per quattro lunghissimi minuti, a loro modo piacevoli.

Riparto, sono da solo, ma da lassù probabilmente qualcuno mi vuol bene: nella successiva mezz’ora non pioverà ed avrò un leggero vento di 3/4 posteriore. Mi spiano sulle prolunghe da crono e sento le gambe girare bene. Ogni tanto lancio un occhiata al garmin e leggo sempre un 4 come cifra iniziale della velocità istantanea, mi piace. Trovo un solitario e lo invito a seguirmi ma durerà poco alla mia ruota ma nemmeno me ne accorgo, purtroppo. Senza strappi e senza sentirmi al limite dopo un tempo che mi pare lunghissimo inizio ad intravedere delle giacche fluo sulla linea dell’orizzonte, sono loro. Accelero.

Poco prima di riagguantare il gruppetto vedo altri tre fermarsi proprio per le medesime necessità idrauliche, io non vedo l’ora di arrivare in scia e riposarmi un po’ nonostante le gambe continuino a girare. Rientro.

Il riposo è brevissimo ma riesco ad alimentarmi bene e a bere qualcosa nonostante non abbia gli stimoli di fame e sete so che non si possono fare scherzi e se avvertirò “il classico buco allo stomaco” sarà già troppo tardi, un po’ di (dolorosa) esperienza insegna più di mille manuali. Il tempo ora peggiora pesantemente, il freddo aumenta, la pioggia ed il vento anche che ora è puro di traverso a sferzarci. Siamo poco oltre la metà gara e ora si instaura tra noi un consapevole silenzio, di quelli che uniscono anzichè dividere.

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cerchiamo per quanto possibile di evitare buche, pozzanghere ed ormaie che sono un ulteriore freno alla nostra avanzata. Ogni pedalata ora è dosata per non fare sforzi più del necessario e sprecare energia. La nostra media si abbassa sensibilmente. Stare a ruota è tanto difficile quanto necessario; solo ogni tanto quando son dietro a Lorenzo aka Benza ed il suo ferriveloci con un antiestetico ma efficace parafango riesco a respirare a bocca socchiusa, altrimenti ben serrato per non bersi i veleni tirati su dall’asfalto con l’acqua.

Non ce ne rendiamo conto ma, nonostante tutto, i chilometri passano via uno dopo l’altro, come mattonelle di un domino lungo da Milano a Torino. Inizio ad avere i piedi zuppi e a sentire la sensibilità sparire da mani ed avambracci ma non devo fargli prendere il sopravvento. Inizio a muovermi il più possibile per riattivare la circolazione a modo, cambio posizione sul manubrio e sulla sella e sento il mio corpo rispondere ed è una bella iniezione di fiducia. Soprattutto le gambe ci sono ancora e tanto vale sacrificarsi ora per il gruppo che non verso la fine quando magari non ne avrò più. Mi metto davanti, braccia sulle prolunghe, posizione comoda ma efficace e senza strappi mi porto di nuovo ai 35-36 orari con ogni tanto qualche sparuta occhiata al farmi star a ruota da tutti gli altri.

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Vado avanti fino a che mi sento un lieve bruciore nei quadricipiti, credo sian passati  dieci minuto o forse qualcosina di più. Mi allargo e mi alzo rallentando, mi volto e ho una sorpresa: siamo rimasti in cinque. Non era una selezione voluta, ma di fatto nemmeno la selezione naturale lo è, anzi spesso mi son trovato io ad essere il selezionato anzichè selezionatore quindi va bene così. Le scritte stradali con l’indicazione Torino si fanno più frequenti e questo fa tanto morale nel nostro piccolo plotone. A Chivasso faccio strada io per il viale centrale in pavè, certo non troppo piacevole ma accorcia un po’ la strada  e tutti lo riteniamo un ottimo scambio: strada per fatica. Brandizzo vola via veloce e ci ritroviamo al cospetto di Settimo Torinese dove a mio parere è necessario onorare questa corsa dando il tutto per tutto perchè è qui che si è sempre decisa ed è qui che se ne si ha la possibilità si deve fare la differenza.

Vedo il buon severinodigiovanni della CCSC (che sta per Ciclo Club Scappati di Casa – geniale) un po’ insofferente sulla poca voglia rimasta a tutti di tirare. Mi par evidente che ne ha e non voglio fare l’egoista quindi mi affianco a lui e gli chiedo se ha voglia di fare una cavalcata finale come si deve. Acconsente, credo non vedesse l’ora nonostante i 135km già sulla schiena per entrambi: “aspetta, non questa rotonda, la prossima si va”. Mi fa un cenno, ed all’uscita della rotonda designata diamo tutto quello che abbiamo. Ci segue un terzo ma poco male. Settimo è come un videogame fatto di zone pedonali e sensi unici in verso opposto. L’unico vantaggio è che il meteo e l’ora di pranzo ci tolgono una buona fetta di traffico ed in men che non si dica leggiamo l’enorme scritta: TORINO!

resta in pratica solo più una svolta decisiva, quella che porta verso la “via del cimitero” che avevo anche provato un po’ di tempo prima. Non so se è la più redditizia ma di sicuro è la più corta ed ora c’è solo voglia di arrivare. Il terzo con noi compie l’inspiegabile errore di allungare di fronte a noi, ben sapendo che solo io conosco la strada. Svoltiamo compatti io e severino con un classico gesto di chi è avvezzo a girare in bici in città. Ora tutto dritto fino al ponte pedonale sul Po che con il suo bianco è quasi come uno stendardo dell’arrivo. Manca solo più la rampetta sterrata di discesa dal ponte, fatta con il solo terrore di bucare e poi la svolta per gli ultimi duecento metri fino all’arrivo!

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In quell’attimo in cui sento di aver superato anche l’ultimo metro di corsa mi sento così bene, appagato e fortunato che sento le gambe girare da sole e portarmi ancora avanti, rallento ma non esito e, incredibile a dirsi, alzo la testa verso l’altro provando quasi piacere a sentire quelle sottili gocce di pioggia sulla pelle come fossero le prime a solcarmi il volto in una giornata in cui in fondo non mi importa di quanto è stata dura, ma ben di più mi rende felice aver conosciuto una parte in più di me stesso e di aver condiviso la strada con persone che meritano il più alto rispetto. Al prossimo anno, per la nostra unica ed irripetibile classicissima di primavera.

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PS: la mia traccia su Strava qui (con tutti i paesi toccati…) ed un po’ di belle foto qui grazie a Vittorio Chingò

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when you go through the hell, keep going! my #MiTo2014 in #fixedgear @vostokmilano

Come ho anche sentito dire, sono le condizioni peggiori a rendere grande un gesto, alla fine si trattava “solo” di fare 150 chilometri senza mai smettere di pedalare…ma andiamo con ordine.

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016Milano, domenica mattina ore 7:25, vialoni deserti, cielo grigio cemento e odore di pioggia. Atmosfera incantevole e cornice ideale per il mio inizio di giornata. Sto andando al velodromo Vigorelli per uno degli appuntamenti più prestigiosi dell’anno per il movimento del ciclismo urbano a scatto fisso: la Milano – Torino per bici fisse. Non è la mia prima volta, ma senza esser banale è un po’ sempre una prima volta. Parto dal vantaggio di aver dormito in Milano, sono riposato è ho fatto una buona colazione, ho con me un buon abbigliamento tecnico e la bici è in perfetto ordine dato che giusto una settimana prima ho potuto fare un buon test su una distanza paragonabile.

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Arrivo al Vigorelli e faccio l’ultimo tratto di strada con il buon “Rido” che trovo anche lui in bici verso il velodromo. Non va solo a fotografare la partenza, quest’anno infatti è una “prima volta” perchè non partiamo dai cancelli, ma partiamo (anche se solo simbolicamente) da dentro il velodromo. Entrare in quella pista è un’emozione che mi sorprende. Conosco la storia del Vigorelli, ma vederlo fa un effetto completamente nuovo: è maestoso, elegante, un silente gigante addormentato, mi colpisce nel profondo ed ho un certo timore a metter le ruote su quel legno. Non siamo molti, ma siamo i più coraggiosi che vogliono sfidare meteo e strade disastrate nello spazio che collega Milano a Torino. C’è anche la concomitanza con una classica monumento come la Milano-Sanremo e come ho letto sul forum in merito al fatto che chi fa del ciclismo una professione è pagato per correre a differenza nostra che lo facciamo per quell’ineffabile spirito di competizione: “loro sono prò, noi siamo eroi”, capirò solo a Torino la forza di questa espressione.

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Pariamo che ancora non piove, facce sorridenti ovunque, mi ricorda la partenza del bus alle gite delle scuole medie dove quasi mai importa l’esatta destinazione, ma c’è la gioia del fatto stesso di partire insieme e così è oggi.

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I primi chilometri passano lenti di andatura ma veloci come sensazione, siamo compatti e motivati tutti, ognuno con le sue di motivazioni (chi semplicemente arrivare chi vuol “fare la corsa”) ma tutte estremamente nobili. In questa gara non c’è nulla in palio, se non la consapevolezza di come la si conduce e la si porta a termine. Fin quasi al 60°km (e due ore di pedalata) tutto scorre bene anche se la pioggia è arrivata e si fa sentire, ma soprattutto inizia ad alzarsi un vento gelido che spira da nord-ovest e non fa ben presagire.

Come in un copione già scritto i ragazzi di Vostok si portano davanti e l’accelerazione è netta e precisa come una scure che separa in due il gruppo, quelli che in qualche modo arriveranno a Torino e quelli che hanno loro malgrado l’agonismo nel sangue per il puro piacere di combattere in sella a delle bici che tecnicamente dovrebbero restare confinate nei velodromi. Seguiranno 40 infiniti chilometri di pura sofferenza sui pedali. Il vento aumenta sempre di più, improvvisiamo dei ventagli per cercare di stare coperti ma non siamo più di 18 corridori, le buche sono un insidia costante e purtroppo mieteranno troppe vittime anche nel gruppo di testa. La pioggia non molla anzi si mescola al vento rendendo la percezione del freddo acutissima. Le mani iniziano a formicolare, gli avambracci, più delle stesse gambe, si tramutano in pezzi di legno dallo sforzo di tener a bada la bici dalle folate e contemporaneamente evitare i crateri nell’asfalto. E’ dura, non si parla più, ci si intente a piccoli gesti codificati nel ciclismo di tutto il mondo si stringono i denti fino a sentir male alle mascelle. Ormai siamo qui, al centro dell’inferno, non ci resta che andare avanti. Il mio amico Alan mi chiede di sfilargli una confezione di gel dalle sue tasche perchè ha perso la sensibilità alle mani, lo vedo in crisi, provo in tutti modi a svolgere quel compito sulla carta così semplice ed ora così complesso. Ci riesco… la pioggia si fa meno intensa, siamo a 110km fatti e 40 ancora da fare, siamo in pochi e ci guardiamo in faccia come dei sopravvissuti.

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Nonostante tutto le gambe ci sono ancora (dei piedi ho vaghe notizie) qualche piccola scaramuccia mi fa capire che arriveremo a Torino ma non sarà banale piazzarsi bene. Siamo alle porte di Chivasso, che conosco bene, ma tutti il nostro plotone decide di fare la circonvallazione del paese, io sarei andato dritto per il centro, malinteso ad una rotonda con un altro corridore, nemmeno il tempo di realizzare e son per terra a scivolare con i gomiti sull’asfalto ancora bagnato.

Una stagione di ciclocross mi ha insegnato a rialzarmi al volo e probabilmente questo gesto mi è entrato in profondità, nelle ossa. Come se avessi ancora la Zino mi rialzo, un occhiata che non mi sia caduto nulla dalle tasche e risalto in sella. Qualcuno ha anche pensato di allungare ma siamo tutti stanchi, rientrare mi costa ma il grande Marcello mi dà una mano e siamo di nuovo tutti compatti.

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Arriviamo a Settimo T.se, la vera chiave della gara. Sapevo che la dinamica sarebbe stata identica allo scorso anno: io e Marcello marchiamo Cronoman-Ferdi, lui taglia dritto, gli altri fanno il giro, lo seguiamo solo io lui ed Alan con la consapevolezza che la mossa è quella giusta. Qualcun altro passato il paese si ricongiungerà ma spendendo troppo. Siamo in sei. L’ultima svolta decisiva è quella da Via Torino a Lungo Stura Lazio, l’unica cosa da fare è marcare a uomo Ferdi e così faccio. Lui taglia “dritto per dritto” io con lui, mi segue solo Alan. Siamo in tre, il podio è questo qui, ora c’è solo da capire in che ordine.

Provo a rilanciare per portarmi sotto, mi alzo sui pedali ma le gambe non accettano più questo tipo di sforzo. Ferdi è ormai a 30 metri e con una bici a scatto fisso un buco del genere non lo chiudi a meno di chiamarti Eddy Merckx. Alan mi raggiunge, mi rifugio sulla sua ruota e gli grido le ultime due svolte che conosco a memoria… manca un solo chilometro. Scatta qualcosa nella mia testa, non mi posso alzare per rilanciare perchè i crampi mi farebbero risedere all’istante, ma d’istinto mi rannicchio sulle prolunghe da crono ed in quella posizione esco di ruota e butto fuori tutto quello che mi rimane, scopro che è anche di più di quanto immaginassi ed una rapida occhiata al Garmin mi fa leggere i 43km/h, non mi volto, continuo. Tiro su la testa a 50 metri dall’arrivo, intuisco figure amiche, ho ancora paura di cadere a causa di una buca o di un tombino ma riesco ad alzare almeno un braccio (due braccia le può alzare solo chi vince) e caccio fuori un urlo di liberazione per avercela fatta, sono secondo dietro ad un vero campione come Ferdi vincitore per il terzo anno di fila.

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Fatico anche a rallentare, mi ci vanno 200 metri buoni, si ferma vicino a me Alan, non riesco a capire se quello che vedo sui suoi occhi sono residui di pioggia o sono lacrime, probabilmente un misto delle due, tremiamo entrambe, siamo a Torino, siamo arrivati.

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