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PERCHÉ LA VERA GARA È AI CHECK POINT, MA IL CP1 È A 2054m … (contiene la via del Sale)

Scritta così, temo che lascerà attoniti molti. Occorre fare una premessa, per chi non è avvezzo a quelle folli garette chiamate “alleycat”. Tutto nasce dal contesto della sub-cultura urbana dei bike messenger. Per metter a tacere le discussioni nel corso della settimana su chi sia il corriere più veloce e scafato, l’idea fu di simulare un paio d’ore di prese e consegne da affrontare nel traffico dello shopping del sabato (perché il traffico è componente essenziale della sfida) per vedere chi effettivamente fosse il più rapido a districarsi tra gli indirizzi e le auto (e con il foglio delle consegne – aka manifest – intatto e completato) fino all’arrivo, in genere il classico pub. Semplici, folli, adrenaliniche e aggreganti come solo il ciclismo “diverso” sa essere. Si diffusero sempre più, prima nell’America del nord (a fare i puntigliosi la prima di sempre fu corsa a Toronto), poi in Europa e poi, stante il carattere giocoso, vennero aperte anche a chi corriere in bici non lo era, ma semplicemente simpatizzante del movimento. Si diffusero anche nella nostra piccola penisola, nelle grandi città. Ebbi il classico colpo di fortuna di essere al posto giusto nel momento giusto per poterne così assaporare tutta la sprizzante ventata di novità in un panorama ciclistico all’epoca un po’ grigio ed imbolsito.

Ora, se correre un alleycat è come star dentro un videogame o, meglio ancora, dentro ad un flipper dove tutto avviene a velocità 2x, tra incroci, sensi unici, check che non si trovano, le classiche due/tre ore di tempo volano via in un soffio, invece se fai il classico volontario al check point è tutta un’altra storia. Il volontario al check ovviamente arriva, prima al suo posto, aspetta un tempo che pare interminabile (tipo i pomeriggi di quando eravamo bambini) e poi all’improvviso si vede arrivare come un’orda di barbari, ma in bici, tutti con già il foglietto in mano, tutti in fila “all’italiana” (voi sapete di cosa si tratta) da dover soddisfare contemporaneamente! Il checker poi, passata l’ondata delle gambe buone, ripiomba nella totale solitudine, al limite in compagnia di una o più birrette, in attesa di tutti gli altri e a volte si illumina quando vede lo sparuto partecipante, per cui offre birra e consigli in egual misura. Come se non bastasse, a fine gara è anche ovviamente tra gli ultimi a giungere all’arrivo (che arrivo non è ma è sempre un mix tra una birreria ed un’officina di bici), quindi si perde anche la prima fetta del post gara: perfetto, no? Ecco perché, all’alba dell’era dello scatto fisso nostrano, fu coniata la massima: “la vera gara è ai check”. Ci va gente fidata, che conosca l’ambiente, che non esageri con le birre e che riesca a tener fede all’impegno dato… nulla di banale a ben vedere!

Tutta questa mole di intro, manco fosse un brano dei Sonic Youth, per raccontarvi che mi ritengo invece un privilegiato ad aver potuto dare una mano come checker della gara di ultracycling chiamata 20k (per chi lo intuisse, sì, 20k è il dislivello, anche se quello effettivo è pure di più…) ideata ed organizzata da quella mente adorabilmente folle del mio amico Andrea Collino.

Anche se qui l’itinerario è tracciato, le gare di questo genere, come ancor di più la celebre transcontinental race, sono di fatto delle alleycat che hanno come estensione una fetta di mondo ben più grande di una città, financo un intero continente. Quando ho saputo che Andrea cercava un volontario per il CP1, ovvero il primo controllo orario, della sua pazzesca 20k (partenza/arrivo a Pinerolo, anche questa non può essere una mera coincidenza fantozziana), non ho resistito e l’ho chiamato immediatamente. Detto-fatto: sei dei nostri, ci vediamo su! Il punto del controllo orario è fissato nel rifugio Sanremo, ed ecco che come per magia, da questo episodio in poi il nome “Sanremo” per me sarà nell’ordine: la classicissima di primavera, il rally (un tempo tappa del mondiale wrc), il rifugio CAI… ed a seguire mi pare anche un festival di canzonette.

Se non l’avete già cercato su google, vi basti sapere che quel rifugio è il più alto della Liguria, quota 2054 m s.l.m., non ha un gestore, ed è in completa autogestione di chi vi alberga. Una piccola cucina, un bagno ed un buon numero di posti letto sono tutto quanto serve per trascorrere un periodo di relax e ristoro nel corso della propria escursione, in bici o a piedi, attraverso quel tesoro che sono le nostre Alpi, posto esattamente al crocevia tra l’Alta Via dei monti liguri e l’antica Via del Sale, in pratica il paradiso dell’outdoor.

Al posto delle tre ore delle gare urbane, il tempo da trascorrere al check (per fortuna non da solo) va dalla sera del sabato (19:30 perché serve esser precisi) al tardo pomeriggio della domenica: incastro perfetto tra gli impegni di lavoro, esattamente tra una call del venerdì ed una riunione al lunedì pomeriggio a Torino.

Dopo una pedalata di avvicinamento da Savona ad Albenga, mi sveglio sabato mattina di buon ora, metto il naso fuori e… piove… perfetto, devo solo far un centello di cui metà sterrato e 4k di dislivello, un po’ di pioggerella non può che aiutare no? Ok, mentirei a me stesso se dicessi che ero entusiasta, aspetto un po’ di tempo, ne approfitto per ricontrollare tutto l’equipaggiamento che ho, dato che sono un bikepacker da scuola elementare, spruzzo un po’ di wd40 sul pacco pignoni dell’ekar per renderlo silenzioso per tutto il weekend e via, ora o mai più. Scelta perfetta. Prendo una leggera pioggerellina per non più di mezz’ora, poi resta solo il fresco di una bella mattinata estiva e le stradine dell’entroterra ligure che, nel caso non lo sappiate, sono un vero tesoro per qualunque ciclista: con le loro salite lunghe, mai estreme e sempre senza traffico.

I primi 60km in solitaria, su asfalto, volano via facili, mi dedico un panino a Molini di Triora e mentre ricarico i vari device mi gusto il buonissimo pane di Triora (se non lo conoscete, male, molto male) con un po’ di affettati. Intorno a me è un pullulare di bikers, per metà stranieri, con mtb che sembrano appena uscite dai migliori showroom del pianeta e pick-up che portano su e giù i suddetti riders. Bene, sono per lo meno in un buon habitat, ma ora tocca far la fatica vera. Ero già stato sulla via del sale, unica ed affascinante, ma mai partendo dal mare, il che dà a tutto un sapore di sfida. Mi immagino chi questa strada così impervia la percorreva da clandestino e per necessità, ma ancor più (sono sempre un ingegnere infrastrutturale) chi questa strada l’ha costruita, con nulla più che le mani, qualche utensile ed il servile lavoro dei muli. Quindi mi ripeto che, per quanto io pensi di star soffrendo sui pedali, sono a tutti gli effetti un privilegiato e percorro questa interminabile salita quasi con reverenza verso chi mi ha oggi permesso di godere di queste montagne in sella alla mia bici.

Muta il paesaggio costantemente: dai boschi di castagno, ai pascoli, ai boschi di conifere, fino alla totale assenza di alberi, quel classico quota duemila metri dove anche gli arbusti non hanno l’ardore di crescere, noi abbiamo la pretesa di salirci in bici, nonostante tutto, sfidando le rocce ed il vento. Oltre alla pendenza, infatti, ci si mette anche il fondo a farmi soffrire: un misto di roccia calcarea e sassi smossi che mette a dura prova la ricerca costante di una linea pulita su cui arrancare col mio ultimo rapporto perennemente innestato. Non sono avvezzo a gestire i movimenti della bici carica, mi sembra di dover guidare un tandem senza passeggero, che reagisce sempre con un gap temporale che mi mette costantemente in crisi. Di metter il piede giù non ne voglio sapere, non ora. Incontro un paio di e-biker fermi che mi guardano tra l’attonito ed il divertito, riesco a dirgli un candido: “scusate le imprecazioni!” ma mi rispondono con consapevolezza da locals che questo è esattamente il tratto giusto per buttarle fuori tutte, per cui fiato alle trombe!

Scollino infine l’ultimo tornante, è (quasi) fatta! Abbandono il tracciato principale per arrivare al rifugio, quasi non mi accorgo che di fatto pendenze e fondo non sono cambiati rispetto a prima, ma esser in vista dell’obiettivo mi galvanizza. Anche il dover percorrere qualche piccolo tratto a piedi non scalfisce il morale, tra poco finalmente vedrò i ragazzi dell’organizzazione, conoscerò il mio compagno di check e, non ultimo, sono perfettamente puntuale. E invece no! Arrivo come un ferroviere svizzero alle 19:15 e dopo pacche e sorrisi Andrea mi fa: “ma lo sai che i primi due son già passati!?”. Per la cronaca, il secondo, anche al traguardo, sarà il buon Federico Bassis del collettivo enough, una garanzia di qualità, che sta facendo letteralmente un’impresa fuori dal comune, almeno agli occhi di un mediocre ciclista amatoriale (non avventuriero) quale sono io.

In attesa dei prossimi concorrenti, mi prendo qualche tempo per ammirare dove sono. Un luogo fuori dal tempo, fatto di montagna aspra e asciutta. Tutto mi parla di viandanti, di pellegrini, di contrabbandieri, di chi ha percorso queste strade spinto da una necessità e da motivazioni enormi. Se chiudo gli occhi riesco quasi a sentire il rumore dei loro passi e l’ansimare dei loro respiri, affaticati dal carico, fisico e di pensieri, che si portavano sulla schiena. Arriva la notte, ed il cielo si popola di una quantità di stelle che raramente ho visto in precedenza, sembra quasi di poterle toccare tanto paiono vicine e luminose. Ma i nostri occhi sono puntati verso il sorgere di altre stelle: quelle dei fari dei concorrenti che, scollinando dalla via Marenca, spuntano come delle piccole nane bianche, ma che, invece di salire verso il cielo, costeggiano l’orizzonte percorrendo tutta la mulattiera di cresta, per un tempo che a noi osservatori pareva lunghissimo, ma che sicuramente sarà parso come una specie di sprint a ciascuno dei corridori che percorrevano quell’ultimo tratto di via.

Accoglierli è emozione pura, percepisci la loro fatica solo standogli accanto ed ascoltando gli scampoli di racconto di quei primi 300 chilometri, che comunque sono la parte più facile (precisato a ragion veduta dall’organizzatore Andrea).

La mattina dopo il rifugio è un brulicare di persone ed attività. Ciclisti, escursionisti, tutti si preparano di buon’ora a partire, tutti hanno già focalizzato il loro personale prossimo obiettivo. Ma tutto quel fervere di attività dura poco ed in breve tempo ci ritroviamo in due, soli, a governare l’intero rifugio e ad attendere tutti gli altri concorrenti. Il mio compagno di avventura, il sciur Benedetto B., sotto l’apparenza di un signore di media età dalla vita d’ufficio, è in realtà un vulcano di racconti ed aneddoti dei suoi tanti ed interminabili viaggi in bici (quattro volte la via di Santiago su quattro percorsi diversi, tanto per citare le più significative). Io sono incantato ad ascoltarlo, e nel mentre mi insegna pure a giocare a burraco! Ecco che la giornata che all’inizio mi appariva noiosa, scivola via come l’acqua di un ruscello alpino, e tra un racconto ed una scala completa di picche, è già ora che io prosegua nel mio percorso, se voglio arrivare in tempo per la cena al prossimo rifugio sulla via del sale. Nel pomeriggio di un’assolata domenica, in un puntino sulla mappa delle Alpi, le nostre strade si dividono, la mia, quella di Benedetto, quella degli organizzatori, quelle dei corridori. Qualcuno in anticipo sui suoi piani, qualcuno in ritardo ma che si sta godendo il panorama, qualcun altro che è sull’orlo di mollare ma non lo fa perché sa che poi la fatica ed il dolore passeranno e resterà solo un album di ricordi pazzeschi da poter sfogliare, di quanto erano da soli, al vento tra le montagne.

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il mio primo anno nel paraciclismo

questo articolo è di un anno fa esatto, ha subito molte modifiche e traversie, ma oggi, nella settimana dei nostri secondi campionati nazionali su pista, era doveroso condividerlo almeno qui.

Molte volte sono proprio le cose che accadono inaspettatamente, non pianificate, ad imprimersi maggiormente nella nostra memora. E così, nel pieno di un’estate costellata di nuovi itinerari con la fiammante bici gravel tanto sospirata, arriva la chiamata che spariglia le carte in tavola: “ti andrebbe di far la guida di un equipaggio tandem con un ragazzo non vedente che vorrebbe prepararsi per  i campionati italiani di paraciclismo su pista?”.  Ora, io di mio sono sempre stato una persona curiosa, ma qui la curiosità era doppia. Arrivare a 45 anni senza mai esser salito su di un tandem era un’esperienza non più rimandabile, ma qui mi si offriva la doppia opportunità per entrare anche in punta di piedi nel mondo del ciclismo paralimpico. Non ci penso un secondo, ed accetto. Non so bene cosa aspettarmi ma tra me penso che non sarà poi tanto diverso dall’andare in bici singola, tanto più che la pista è per me decisamente una comfort zone, e che di sicuro annulla tutta una serie di variabili poco controllabili tra cui il traffico e, fatto non secondario, anche le salite, dato che il peso messo su in questa pandemia mi fa arrossire ogni volta che vedo un mio tempo sulle salite fatte qualche anno fa.

Complice una pioggia impertinente, il giorno dell’esordio è solo statico, nessuna pedalata. Apprezzo però fin da subito l’entusiasmo di Michele, mio nuovo compagno di pedalate. Maneggiare e soppesare un tandem è già di per sé una scoperta. Lungo, molto più lungo di quanto ricordassi da quanto visto in passato, pesantuccio e da manovrare con cognizione di causa. Questo in particolare ci è stato dato in comodato d’uso dalla fondazione “Obiettivo3” di Alex Zanardi e basta questo per inorgoglirci e motivarci a far bene. E’ però un tandem da strada che quindi, per le gare su pista che affronteremo (kilometro da fermo ed inseguimento individuale), andrà adattato bloccando il rapporto come se fosse idealmente una trasmissione a scatto fisso. La prima prova è solo rimandata di una settimana e, scontato l’apprendistato necessario per impadronirsi delle fasi del “partire e fermarsi” (proprio come nell’aviazione queste sono le fasi più delicate dove finir per terra è fin troppo facile), iniziamo a far ritmo e a sentire il vento che via via sibila sempre più forte nelle nostre orecchie. Michele è un compagno attentissimo a questa fase di allenamenti, coglie ogni minima variazione di ritmo e traiettoria sulle paraboliche, “sente” la potenza erogata da entrambe e detta ritmo e cadenza dei vari esercizi di avvicinamento alle due discipline. Sessione dopo sessione affiniamo sia il mezzo meccanico (gomme, pedali e catena nuovi, ma soprattutto installiamo le prolunghe da cronometro che sono essenziali nell’inseguimento) sia l’intesa di pedalata, che con delle semplici parole risulterebbe ben difficile da spiegare. Le due pedivelle sono solidali e sincronizzate tra loro, il motore è di fatto un quadricilindrico a propulsione umana, e proprio come gli altri motori, quelli che fanno fumo, anche questo non può e non deve avere un cilindro o due che scoppiettano rispetto agli altri. Tutto deve essere una piccola sinfonia eseguita sotto le orecchie vigili di un direttore d’orchestra, uno di quelli che scova all’istante che il terzo violinista partendo da sinistra è fuori di un quarto di tono. Non solo, la guida di questa trave da ponte con le ruote alle estremità non è così semplice come si possa immaginare, ma segue la legge di quando si va sulla sabbia: “più vai forte più veleggi preciso”, ed anche qui, in piena velocità, si ha la sensazione di essere il capitano di una nave lanciata a tutto vapore… correzioni minime e barra dritta!

Gli allenamenti si susseguono velocemente, ma è all’ultima sessione, quella di rifinitura, che il livello di pressione emozionale sale alle stelle. Mentre ci avviciniamo alla pista racconto a Michele ciò che ci circonda, quanti stanno girando, e che a bordo pista hanno già anche montato il podio. Lui per tutta risposta, immediato, come una demi-volè, butta fuori la sentenza: “noi ci dobbiamo salire su quel podio!”. Io vengo spiazzato proprio come un tennista sprovveduto, ma al tempo stesso caricato a molla per far del mio meglio. Il tempo non è stato molto, ma gli allenamenti sono stati quelli giusti e l’intesa c’è ed è di quelle belle, rivolta verso l’obiettivo comune di far bene.

(foto di Piergiorgio Mariconti)

Race day: nessuna scusa. Arrivati di buon mattino e sbrigate le pratiche amministrative, siamo subito attenti al briefing pre gara, dove il tecnico UCI (sì sì non federazione, proprio UCI) spiega nel dettaglio gli svolgimenti delle gare e specifica quanto rigorosa sarà anche la cerimonia protocollare di premiazione. Non siamo alla granfondo di Voghera, non ci si può nascondere in gruppo, nessuna strategia, stare al vento per quattromila metri è qualcosa che è in grado di dilatare il tempo e far diventare quei dieci giri di pista un viaggio ai limiti di quanto ciascuno dei propri fisici possa esprimere, senza mai perdere il timone della guida per far restare la nostra massa pedalante nella migliore traiettoria possibile, fino all’ultimo centimetro. Sostenuti dal commissario iniziamo a posizionarci, in quella danza gestuale che precede la partenza, il frastuono sulle tribune si allontana come se le stessero trainando via, il chiacchiericcio ed il ronzio dei rulli degli altri atleti si fa sempre più basso fin quasi a scomparire, i polmoni si gonfiano ed arriva lo sparo dello starter. Tutta la pressione mentale svanisce come cancellata da un colpo di spugna. Siamo soli. Con un infinito rettilineo ripiegato da percorrere al meglio delle nostre possibilità. La partenza era un po’ il nostro punto debole, ma la forza iniziale di Michele la sento trasmessa a tutto il tandem, prendiamo velocità nel migliore dei modi e poi giù, sulle prolunghe crono per vincere quella maledetta resistenza all’aria che è il nemico numero uno di ogni ciclista veloce. Quando arriviamo a metà prova, ai fatidici “meno 5”, mi sembra di aver già dato quasi tutto, ma so anche che è proprio da qui in poi che si fa la gara. Non calare, non dobbiamo calare di velocità, e l’unico modo per uscirne e tenere costante la cadenza acquisita, senza sconti. Ogni minuto le gambe devono girare almeno novanta volte, mai meno. Con questo stratagemma mentale i giri sfilano via uno dopo l’altro, provo a usare qualche altro trucchetto da vecchio pistard come, ad esempio, percorrere la curva scendendo tra la linea rossa dei velocisti e la nera demarcante la corda, in modo da farla sembrare una specie di mini discesa per qualche decina di metri, il contentino che ne traiamo è più mentale che pratico, ma tant’è. Il vero e proprio boost arriva alla campana dell’ultimo giro, questo sì fatto tutto in apnea fino all’ultimo metro e quel “din” del tocco finale di campana è una vera e propria liberazione. Quasi storditi dallo sforzo rientriamo ai box e ci attacchiamo alle reti aspettando gli altri tempi, dato che, in quanto atleti di casa, eravamo partiti per primi. Salire sul podio è questione di secondi, pochi maledetti secondi, ma alla fine sì, siamo a podio! Brividi lungo la schiena, abbracci sentiti fino in fondo ed un esser fieri di noi stessi che mai avevo provato in questa forma. Non siamo una squadra, siamo un equipaggio: come pilota e navigatore delle auto da rally, in questo caso siamo anche i motori di noi stessi, e una miscela di emozioni unica che culmina con l’inno nazionale suonato con noi sul podio, a fianco di avversari che so già diventeranno anche loro amici, perché ad oggi il mondo paralimpico è ancora piccolo ma ha una potenzialità che non credevo nemmeno possibile

io e Michele in gara nell’inseguimento su pista (foto di Piergiorgio Mariconti)

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i 10 anni della #MilanoTorino, senza mai smettere di pedalare. #MiTo2017 @vostokmilano

Celebrare, correndo, i dieci anni della Milano Torino è essenzialmente anche celebrare i 10 anni di scatto fisso urbano e veloce qui in Itala, un qualcosa a cui non si può mancare perché, ancora più del solito, esserci fa la differenza…

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Già, proprio come la Redhookcrit, ormai riconosciuta come bandiera internazionale del “nuovo ciclismo”, così la nostra Milano Torino, proprio negli stessi giorni, si trova a far i conti con i primi 10 anni di vita, godendo ancora di ottima salute. Proprio come la famosa criterium, da un paio di anni è stata traslata un po’ più avanti nella stagione, e questo ha senza dubbio giovato sia alla godibilità della gara in se (chi c’era nel 2014 sa già tutto), sia per una ritrovata linfa vitale in nuovi corridori che si schierano entusiasti alla partenza. Quest’anno poi, come vera ciliegina sulla torta, si arriverà non più di fronte al motovelodromo Coppi, ma proprio al suo interno come nel 2011, rimarcandone maggiormente il blasone di classica e facendola assomigliare ancora un po’ di più alla regina di tutte le classiche del ciclismo, la Parigi-Roubaix.

motovelodromo

Uno degli intenti di questa gara, o meglio definita, di questa sfida agonistica tra cavalieri del pedale a scatto fisso, è anche quella di sensibilizzare, chi segue un po’ di ciclismo amatoriale, a far risvegliare i due monumenti dormienti, ovvero i velodromi Vigorelli e Coppi, entrambi legati a difficoltà burocratiche e forti necessità manutentive per essere appieno goduti dalla cittadinanza, e soprattutto dai giovanissimi per il loro avviamento all’agonismo vero. La Milano – Torino professionistica è anche la più antica corsa al mondo, iniziata nel 1876, guarda caso nascevo 100 anni dopo esatti, e proprio queste due città con i loro velodromi sono state la culla dove il ciclismo è nato ed è il fenomeno mondiale che oggi conosciamo. Non scrivo altro qui, ma davvero senza una rete di velodromi e scuole pista intravedo grandi difficoltà a far sì che possa emergere il ciclismo italiano.

Milano, ore 7:30. Usciamo di casa io e Stefano per dirigerci alla partenza. Ho sempre avuto un debole per i ricordi olfattivi. Nel mio schedario mentale di questi, infatti, un cassetto speciale è riservato ai profumi della città al mattino presto. Credo che, proprio come una bella donna, il vero volto di una città si sveli al mattino presto, con le strade appena lavate, i bar che aprono, i primi tram che sferragliano e quel ineffabile odore che racchiude tutto questo e che, con qualche sfumatura, resta costante nelle città in cui val la pena trascorrere del tempo. Oggi non fa eccezione e ci godiamo, per una volta, i vialoni vuoti, mentre pedaliamo e chiacchieriamo senza fretta.

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Riconoscere i soliti volti noti alla partenza è più confortante quest’anno, c’è l’atmosfera giusta per fare di questa giornata una di quelle da ricordare per un po’ e i minuti prima del via sono sempre quelli che meglio incorniciano questo evento come il meno omologabile di tutto l’anno. Ci sono corridori veri, quest’anno come punta di diamante Alex Bruzza, gli amatori evoluti, gli stradisti che non disdegnano uscite in fissa, i duri e puri dello scatto fisso urbano, i messenger, capitanati dal fondatore di UBM Roberto Peia che è l’unico – oltre al patron Marcello – ad aver corso tutte le edizioni, i viaggiatori in bici che interpretano i 150km di oggi come una distanza a raggio medio corto… insomma, il bello è ritrovare il collante della passione in questo gruppo così eterogeneo. Finite le, doverose, chiacchiere è ora di schierarsi e partire. Il bello della Mi.To. è anche questo, una partenza che assomiglia più ad una critical mass che non ad una gara.

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Si esce da Milano con aria festosa di chi va a far la gita fuori porta e, di fatto, per una buona parte dei quasi 70 ciclisti, oggi sarà proprio così. L’inizio dei vialoni, passato l’anello della tangenziale si trasforma via via in strada statale, senza soluzione di continuità, e la classica due corsie a carreggiata unica sarà il nostro scenario di gara.

Nonostante la regola cavalleresca imponga un certo fair play (o sarebbe meglio dire fair ride…) fino ad Abbiategrasso, il gruppo inizia ad allungarsi lambendo la cittadina lombarda, nulla di repentino, ma è una progressione che merita attenzione per non trovarsi troppo arretrati o distratti nell’avvio delle ostilità.

Complice anche il primo allungo di uno sparuto gruppo di stradisti, lecitamente con noi – dato che per loro è prevista anche l’ascesa finale alla basilica di Superga- ci si trova subito in un embrione di fuga, siamo pochi, meno di dieci, e a dettare il ritmo è subito messer Bruzza, che a differenza nostra riesce ancora a respirare a bocca chiusa.

Mortara vola via in un istante, senza accorgercene abbiamo già superato un terzo di gara, da qui in poi ci aspettano cento chilometri di guerra. Serro le mani in presa bassa sul manubrio, mentre la testa sta già iniziando a pensare alle pareti bianche delle paraboliche al velodromo.

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Qui il primo colpo di scena: poco dopo Castello d’Agogna, incredibilmente, sbagliamo svolta! Bastano poche centinaia di metri per ravvedersi ma tanto basta per veder sfilare all’orizzonte le sagome di sei corridori, tra i quali i due ragazzi di MilanBike (Ale e Luca), Ganio, Andrea/Severino dei CCSC ed un paio di altri. Conosco da qualche anno Alex Bruzza, sia come persona sia come corridore, e so che, anche in questo caso, la voglia di fare bene unita all’istinto del corridore faranno in modo di colmare il gap. Proprio mentre riprendiamo la cadenza di crociera e ci riportiamo sul corretto tracciato mi affianca e mi fa: “beh, dobbiamo riprenderli!”. Ovviamente annuisco, ed anche io sono nell’ordine mentale di farlo, ma in questo caso Alex ha un piano leggermente diverso dal resto del nostro gruppetto. Infatti, mentre noi iniziamo a darci cambi veloci e regolari sul filo dei 42-44 orari, lui in progressione si porta ai 46. Come un novello Merckx. Noi facciamo fatica a darci il cambio dietro di lui! in un paio di chilometri ci fa capire che a quel ritmo lui confida di chiudere sui fuggitivi nel minor tempo possibile ed eventualmente anche staccarli per cavalcar da solo tutta la strada che rimane da qui a Torino. Mai programma fu eseguito in maniera più puntuale, ma andiamo con ordine. 

Restiamo in sei. Là davanti (noi lo sapremo solo dopo l’arrivo), verso l’80°km, Alex ha già ripreso i fuggitivi e si avvia verso la gloria. Noi siamo comunque ben organizzati e non abbiamo cali di ritmo, anche se, nella sostanza, solo la metà di noi riesce a fare il proprio turno davanti al vento, tirando e motivando la restante parte a non mollare e farsi sotto. Nel frattempo i ragazzi di Milan – Bike, con una scelta astuta attraversano “dritto per dritto” tutti i paesi sul percorso: Morano, Trino, Crescentino, Verolengo… via dritti come un fuso. Noi badiamo più alla gestione della nostra lunghissima cronosquadre e non curiamo il sottile dettaglio, concentrandoci sul cercar di mantener un’andatura appena al di sotto delle nostre possibilità e confidando, chissà mai, in una crisi tra i primi fuggitivi.

Cosa che per i primi due di loro, purtroppo (per loro), avviene, e così possiamo riprendere i primi due alle porte di Chivasso. Li troviamo talmente in crisi che il nostro invito ad unirsi al gruppo cade nel vuoto, sia a parole, sia a fatti. In questi casi, come si dice, prevale la testa e la volontà di arrivare al traguardo, a dispetto di una crisi fisica importante. Come si usa spesso dire: ognuno è a turno chiodo o martello ed in questo caso vedo riflesso nei loro occhi proprio la sagoma dell’uomo col martello.

Passato Brandizzo, però, distinguiamo nettamente avanti a noi tre sagome, non sono ciclisti della domenica, sono i nostri pari e autori di una buona fuga. Dare un colpetto di gas e riprenderli è un dovere a cui io, Federico e Carmine non ci tiriamo di certo indietro. Arriviamo alle porte dell’ultimo, cruciale, paese in configurazione classica di “gruppo compatto”, a meno di Alex, ancora avanti ed invisibile ai nostri occhi. Attraversare Settimo non è mai banale, c’è una parte pedonale ed una via in controsenso che richiedono grande perizia e sangue freddo, cosa difficile da cavar fuori dopo 135km di gara, ma ne usciamo, tutto sommato, bene e insieme.

La vista del portale con su scritto enorme “TORINO” è, al solito, cibo per corpo e mente. Ci siamo, non resta che snocciolare per il vialoni cittadini questa manciata di chilometri che ci separano dal motovelodromo Coppi, nella maniera più oculata e redditizia possibile. A sorpresa, Luca interpreta al meglio la sfida con una repentina svolta a sinistra verso la celebre curva delle “100Lire”, noi non lo sappiamo ancora, ma sarà la sua mossa vincente dato che noi rimasti, a sorpresa, avremo un altro imprevisto a cui dover far fronte.

Costeggiamo il cimitero, affrontiamo il curvone sud piegando a 90° come se fosse un granpremio di motoGP, ora a sinistra e via, tutto dritto fino in corso Casale… o no? aspetta aspetta, frena! Oggi in via Carcano c’è il mercatino dell’usato! Transenne, banchi, ombrelloni, teli bianchi a terra con sopra la merce e tanta, tanta, troppa gente che si aggira tra le bancarelle. Come dissero ad Aragorn nel Signore degli Anelli: “la via è chiusa!” Sono l’unico Torinese, ho il dovere di portare i ragazzi al traguardo nel minor tempo possibile. Scorre nella mia mente il tutto città Torino alla velocità della luce, ricordo una via alternativa, ma devo decidere in fretta, molto in fretta. Ma sì ci sono! poco più avanti c’è un’altra via che con un buon diagonale ritorna indietro e ci riporta al ponte sulla Dora (via Poliziano, per gli amanti della toponomastica). In un attimo siamo già al grande semaforo di corso Belgio, ed il poco traffico ci è complice. Piccola gimkana e posiamo le ruote sul ponte ciclo pedonale sul Po, e nonostante la foga, uno sguardo al grande fiume cattura tutti e riempie gli occhi di un bel sorso di città. Ora attenti, si scende sullo sterrato, pochi metri, svolta a destra, corso Casale, subito tutti sulla sinistra mentre vedo già le sagome amiche di chi, bonariamente, tiene a bada il traffico per farci entrare nel velodromo.

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Da qui in poi l’emozione ha il sopravvento su tutto, gli attimi molto brevi riescono a dilatarsi nel tempo come in un film di fantascienza, e tutto assume una dimensione ovattata e confortante. E’ un po’ come quando Pinocchio entra nella pancia della balena, solo che noi ora non passiamo dalla bocca ma dal sali scendi della rampa di accesso, il cui gioco di luci in chiaro/scuro/chiaro ci proietta quasi in un’altra dimensione. Siamo protetti ed avvolti dal bianco della pista, dentro il motovelodromo Coppi. Come per incanto si annullano tutti i messaggi provenienti dal corpo, nessuna fatica, nessun dolore o principio di crampi come solo pochi istanti fa sembrava essere. Tutto lo spazio è occupato dalla meraviglia di essere lì e sentir le grida ovattate di chi ci è venuto ad aspettare. Brillano gli occhi di Laura e dei miei bambini a nel vedermi percorrere l’ultimo giro che è un misto tra volata e giro di trionfo, tutto mescolato insieme e condito con un pizzico di eroismo per una piccola impresa che, per me si rinnova per la sesta volta ed è sempre nuova, sempre avvincente in modo differente dagli anni precedenti.

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Mi convinco a fermarmi, solo per la voglia di salutare la mia famiglia e per la gran sete, magari di una buona birra (puntualmente presente), altrimenti avrei fatto ancora almeno una decina di giri per gustarmi lo spettacolo degli altri arrivi direttamente da dentro l’azione. Il resto è una successione di abbracci reali ed ideali, tra loro, spicca quello con Federico, amico da anni, e con il quale oggi abbiamo condiviso di nuovo tanto: fatica, rispetto, voglia di far bene e, soprattutto, di divertirsi con lo sport più bello del mondo interpretato a modo nostro!

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una Sanremo non fa primavera, ma fa emozionare #MSR2017

Come spesso accade le cose non pianificate sono quelle che più restano impresse nella memoria, ed è accaduto anche questa volta con un semplice messaggino whatsapp che diceva: “ti piacerebbe veder da vicino la Milano Sanremo?”…

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sanremo_valcava 016Ovviamente non ci pensai su nemmeno un minuto. Memore della splendida esperienza vissuta lo scorso anno in casa Lampre-Merida, ma quella volta si trattava del giro d’Italia e le condizioni erano diverse. Ora l’occasione, grazie a Garmin Italia, è quella di poter vedere da vicino le operazioni dentro un UCI world team prima e durante la partenza della Milano – Sanremo, classica monumento di primavera che dà il via alla canonica stagione professionistica su strada.

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Arrivo all’hotel e mi accoglie Matteo, agente stampa dell’Astana. Scorgo da dietro le ampie vetrate l’inconfondibile azzurro del loro bus e iniziamo a raccontarci reciprocamente il percorso di esperienze maturate in campo ciclistico e non, che ci hanno portato ad essere qui oggi. Durante il nostro discorrere, intorno a noi c’è un fitto via vai di atleti e membri dello staff e la mia attenzione viene subito catturata dal foglio appeso sulla parete a fianco degli ascensori principali. E’ un semplice schema con tutto il personale della squadra con a fianco riportato il numero della relativa camera, utile ai massaggiatori e direttori sportivi per avere un immediato colpo d’occhio su dove sia il tal atleta o meccanico, per non perdere tempo nel doverli reperire in caso di necessità.

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La cena con meccanici e d.s. (gli atleti hanno cenato prima e stanno già riposando, perchè domani sarà per loro una lunghissima giornata…) scorre via molto amabilmente, con aneddoti e considerazioni su cosa era e cos’è oggi il ciclismo professionistico. Pendo letteralmente dalle loro labbra. La considerazione principale di fatto è che il ciclismo oggi è senza dubbio molto più pulito, ma sono venute meno praticamente tutte quelle leggi non scritte che un tempo governavano il gruppo dei corridori. Non si tratta di nonnismo o peggio, ma di fatto c’erano i giovani, i gregari di esperienza ed i capitani, ognuno con peso specifico differente, oneri ed onori differenti. Oggi, complice anche la tanta voglia di arrivare unita alla spregiudicatezza dei giovani talenti ed al necessario tornaconto (non fosse altro che di visibilità) delle squadre, è all’ordine del giorno vedere i giovani e giovanissimi letteralmente “scattare in faccia” al gruppo già dal terzo chilometro di gara o sovvertire le fasi di approccio ad una salita decisiva, arrivando ai piedi di essa come se il traguardo fosse lì e non dopo altri quattro o cinque colli di giornata. Alla fine nessuno è comunque demoralizzato dalla situazione, solo se ne prende atto con un po’ di disillusione. I tempi di Merckx sono davvero ormai tanto tanto lontani.

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Al mattino la sveglia suona molto presto ed io sono già sul piazzale retrostante l’hotel alle prime luci dell’alba. Sono in azione i meccanici con una gestualità e disciplina che mi affascina.

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Ricontrollano le bici, non minuziosamente (non ve ne sarebbe il tempo) ma in quei particolari essenziali che potrebbero far la differenza tra una vittoria ed un buon piazzamento, o anche solo tra la soddisfazione del corridore e la sua frustrazione e successiva insicurezza nelle prossime gare. Fatto da evitare con più attenzione che una sindrome da over training.

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Noto che l’equipaggiamento è molto simile per praticamente tutti gli otto atleti oggi impegnati in gara (portacolori azzurro oggi il solo Oscar Gatto) due tipi di telaio, uno aero ed uno più tradizionale, tutte ruote con profilo attorno ai 60mm, poichè con il vento previsto, osare oltre potrebbe esser controproducente. Per tutti cambio elettronico (la cui affidabilità è ormai fuori discussione) per finire freni tradizionali, come da regolamento UCI.

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Inevitabile scambiarci qualche battuta proprio su questo tema caldo che è l’impiego dei freni a disco. Se da una parte tutti sono convinti del consistente aumento delle condizioni di sicurezza ed affidabilità di un impianto del genere su di una bici da corsa (gomme permettendo, dato che si sta giustamente virando verso coperture da 28mm) d’altro canto nelle corse professionistiche sono tante le variabili che portano, ad oggi, a ritenerli ancora non impiegabili ad occhi chiusi. In primis il grande aggravio di lavoro che darebbero ai meccanici stessi soprattutto in fase di corsa, dove negli attimi concitati di un cambio ruote occorrerebbe svitare e sfilare il perno passante (in luogo di un rapido gesto del quick release), infilare e centrare con attenzione la ruota, avendo nel contempo massima cura che nè il meccanico nè il corridore stringano la leva del freno che potrebbe causare l’incollamento delle pasticche tra loro e dovendo, di conseguenza, procedere al successivo distacco delle stesse con un cacciavite, per poi rinfilare il perno e serrarlo. Attimi certo, ma che possono valere una gara e va considerato che non tutti gli atleti di una squadra possono avere l’intera bici a sostituzione in caso di un problema tecnico. Ultimo aspetto, che di fatto esula da considerazioni analoghe nel mondo amatoriale, è il dover considerare che le gare professionistiche su strada (quindi non mtb nè ciclocross dove il disco ha giustamente ormai preso il sopravvento) si svolgono per la maggior parte del tempo in configurazione di “gruppo compatto” andando ad esporre i corridori ad una probabilità molto più alta di collidere con un disco in rotazione in caso di caduta di gruppo. Aspetto quest’ultimo senza dubbio mitigabile con alcuni accorgimenti, ma di fatto non del tutto eliminabile.

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Rientro nell’hotel per la mia colazione e vedo anche gli atleti loro al tavolo. Matteo mi fa notare che, il giorno della gara, gli atleti hanno un tavolo a parte, solo per loro e nemmeno vicino a tecnici, massaggiatori o commissari tecnici. Questa scelta ha un motivo ben preciso: il cercare di far cementare il gruppo e dar loro l’opportunità di mettersi nella condizione di massimo agio, al fine di non dover trattenere la tal frase o battuta per timore di esser fraintesi da quelli che di fatto sono i loro superiori in ambito lavorativo. Meglio lasciarli ai loro discorsi, magari anche futili e lontani da strategie e tattiche di giornata ma essenziali per affrontare la corsa a mente libera.

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E’ tempo di muoversi ed in breve, complice il poco traffico del sabato mattina, stiamo già entrando in città. La scena meriterebbe la ripresa esterna di un drone con le tre macchine, un bus ed un camion di colore azzurro che si stagliano sulle policromie di grigio cittadino.  Stiamo andando ad una delle gare ciclistiche più famose ed importanti al mondo e trattengo a stento l’emozione, muovendomi continuamente sul sedile ed ammirando il foglio con lo schema dell’intero “peloton” di oggi e le annotazioni sulla mappa del tracciato per la gestione della corsa.

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L’arrivo al castello sforzesco è imponente, con tutte le squadre intente a scaricare le bici e a verificare gli ultimi dettagli prima delle operazioni di partenza. Gli atleti alla spicciolata escono dal bus dopo il briefing del direttore sportivo: si percepisce subito la tensione sui loro volti, così diversi da solo poche ore fa in hotel. Soprattutto sui più giovani si scorge una tensione governata a fatica, il loro compito sarà gravoso durante i quasi 300km di oggi e dovranno far sì che tutto giri a favore della squadra e dei loro uomini veloci o “finisseur” nel caso di un tipico attacco sull’ultima asperità del Poggio (fatto poi verificatosi in maniera eclatante quest’anno!).

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sanremo_valcava 038Piccolo attimo di mondanità con la sfilata al foglio firma e qualche battuta scambiata con gli intervistatori in inglese e italiano, poi via, tutti pronti ad incolonnarsi per la partenza. Come tutte le gare pro, i primi chilometri sono neutri, per dar modo al gruppo di assestarsi ed alle ammiraglie di sgranarsi correttamente.

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Non ci sono macchie uniformi delle squadre ma il gruppo al momento attende in una configurazione piuttosto variopinta. E’ anche l’unica occasione della giornata per i corridori di scambiare qualche battuta con altri amici atleti al di fuori della loro squadra, anche per spezzare la tensione dell’attesa.

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Tutto è pronto, lo speaker scandisce il countdown per la partenza ed i corridori iniziano ad impugnare il manubrio con fare più deciso…3…2…1….VIA! Inizia la trionfale sinfonia a-ritmica dei duecento “clack!” dei pedali, non si sganceranno prima di sette ore e spiccioli di gara.

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Benchè oggi il clima sia mite, ma molto ventoso, e che il tracciato non sia particolarmente duro nonostante la sua non indifferente lunghezza  (la maggiore di tutta la stagione, da sempre), sarà l’agonismo stesso degli atleti a render selettiva la corsa e a far primeggiare su via Roma a Sanremo solo chi sarà stato in grado di gestirsi al meglio e di attaccare nel momento chiave. Buona fortuna ragazzi!

PS: Trovate qui, sul blog di Garmin,  un riassunto di questo racconto.

Le foto brutte in questo articolo sono mie, quelle belle della inossidabile coppia di Tornanti.cc aka i miei amici Francesco ed Eloise.

3 commenti

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il nuovo portale @endusport con il mio racconto della 12h di Monza fatta in solitaria e a #scattofisso

è stata una vera avventura, nonostante il teatro della gara sia stato il sicuro autodromo di monza, sul rinnovato magazine di ENDUsport vi racconto come è andata, con la testa che già pensa a cosa fare di ancora più folle la prossima stagione!

10 settembre 2016 Comments (0) Racconti dei partecipanti, Racconto in evidenza 12h Cycle Marathon (a scatto fisso)

colomba

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