Scritta così, temo che lascerà attoniti molti. Occorre fare una premessa, per chi non è avvezzo a quelle folli garette chiamate “alleycat”. Tutto nasce dal contesto della sub-cultura urbana dei bike messenger. Per metter a tacere le discussioni nel corso della settimana su chi sia il corriere più veloce e scafato, l’idea fu di simulare un paio d’ore di prese e consegne da affrontare nel traffico dello shopping del sabato (perché il traffico è componente essenziale della sfida) per vedere chi effettivamente fosse il più rapido a districarsi tra gli indirizzi e le auto (e con il foglio delle consegne – aka manifest – intatto e completato) fino all’arrivo, in genere il classico pub. Semplici, folli, adrenaliniche e aggreganti come solo il ciclismo “diverso” sa essere. Si diffusero sempre più, prima nell’America del nord (a fare i puntigliosi la prima di sempre fu corsa a Toronto), poi in Europa e poi, stante il carattere giocoso, vennero aperte anche a chi corriere in bici non lo era, ma semplicemente simpatizzante del movimento. Si diffusero anche nella nostra piccola penisola, nelle grandi città. Ebbi il classico colpo di fortuna di essere al posto giusto nel momento giusto per poterne così assaporare tutta la sprizzante ventata di novità in un panorama ciclistico all’epoca un po’ grigio ed imbolsito.
Ora, se correre un alleycat è come star dentro un videogame o, meglio ancora, dentro ad un flipper dove tutto avviene a velocità 2x, tra incroci, sensi unici, check che non si trovano, le classiche due/tre ore di tempo volano via in un soffio, invece se fai il classico volontario al check point è tutta un’altra storia. Il volontario al check ovviamente arriva, prima al suo posto, aspetta un tempo che pare interminabile (tipo i pomeriggi di quando eravamo bambini) e poi all’improvviso si vede arrivare come un’orda di barbari, ma in bici, tutti con già il foglietto in mano, tutti in fila “all’italiana” (voi sapete di cosa si tratta) da dover soddisfare contemporaneamente! Il checker poi, passata l’ondata delle gambe buone, ripiomba nella totale solitudine, al limite in compagnia di una o più birrette, in attesa di tutti gli altri e a volte si illumina quando vede lo sparuto partecipante, per cui offre birra e consigli in egual misura. Come se non bastasse, a fine gara è anche ovviamente tra gli ultimi a giungere all’arrivo (che arrivo non è ma è sempre un mix tra una birreria ed un’officina di bici), quindi si perde anche la prima fetta del post gara: perfetto, no? Ecco perché, all’alba dell’era dello scatto fisso nostrano, fu coniata la massima: “la vera gara è ai check”. Ci va gente fidata, che conosca l’ambiente, che non esageri con le birre e che riesca a tener fede all’impegno dato… nulla di banale a ben vedere!
Tutta questa mole di intro, manco fosse un brano dei Sonic Youth, per raccontarvi che mi ritengo invece un privilegiato ad aver potuto dare una mano come checker della gara di ultracycling chiamata 20k (per chi lo intuisse, sì, 20k è il dislivello, anche se quello effettivo è pure di più…) ideata ed organizzata da quella mente adorabilmente folle del mio amico Andrea Collino.
Anche se qui l’itinerario è tracciato, le gare di questo genere, come ancor di più la celebre transcontinental race, sono di fatto delle alleycat che hanno come estensione una fetta di mondo ben più grande di una città, financo un intero continente. Quando ho saputo che Andrea cercava un volontario per il CP1, ovvero il primo controllo orario, della sua pazzesca 20k (partenza/arrivo a Pinerolo, anche questa non può essere una mera coincidenza fantozziana), non ho resistito e l’ho chiamato immediatamente. Detto-fatto: sei dei nostri, ci vediamo su! Il punto del controllo orario è fissato nel rifugio Sanremo, ed ecco che come per magia, da questo episodio in poi il nome “Sanremo” per me sarà nell’ordine: la classicissima di primavera, il rally (un tempo tappa del mondiale wrc), il rifugio CAI… ed a seguire mi pare anche un festival di canzonette.
Se non l’avete già cercato su google, vi basti sapere che quel rifugio è il più alto della Liguria, quota 2054 m s.l.m., non ha un gestore, ed è in completa autogestione di chi vi alberga. Una piccola cucina, un bagno ed un buon numero di posti letto sono tutto quanto serve per trascorrere un periodo di relax e ristoro nel corso della propria escursione, in bici o a piedi, attraverso quel tesoro che sono le nostre Alpi, posto esattamente al crocevia tra l’Alta Via dei monti liguri e l’antica Via del Sale, in pratica il paradiso dell’outdoor.
Al posto delle tre ore delle gare urbane, il tempo da trascorrere al check (per fortuna non da solo) va dalla sera del sabato (19:30 perché serve esser precisi) al tardo pomeriggio della domenica: incastro perfetto tra gli impegni di lavoro, esattamente tra una call del venerdì ed una riunione al lunedì pomeriggio a Torino.
Dopo una pedalata di avvicinamento da Savona ad Albenga, mi sveglio sabato mattina di buon ora, metto il naso fuori e… piove… perfetto, devo solo far un centello di cui metà sterrato e 4k di dislivello, un po’ di pioggerella non può che aiutare no? Ok, mentirei a me stesso se dicessi che ero entusiasta, aspetto un po’ di tempo, ne approfitto per ricontrollare tutto l’equipaggiamento che ho, dato che sono un bikepacker da scuola elementare, spruzzo un po’ di wd40 sul pacco pignoni dell’ekar per renderlo silenzioso per tutto il weekend e via, ora o mai più. Scelta perfetta. Prendo una leggera pioggerellina per non più di mezz’ora, poi resta solo il fresco di una bella mattinata estiva e le stradine dell’entroterra ligure che, nel caso non lo sappiate, sono un vero tesoro per qualunque ciclista: con le loro salite lunghe, mai estreme e sempre senza traffico.
I primi 60km in solitaria, su asfalto, volano via facili, mi dedico un panino a Molini di Triora e mentre ricarico i vari device mi gusto il buonissimo pane di Triora (se non lo conoscete, male, molto male) con un po’ di affettati. Intorno a me è un pullulare di bikers, per metà stranieri, con mtb che sembrano appena uscite dai migliori showroom del pianeta e pick-up che portano su e giù i suddetti riders. Bene, sono per lo meno in un buon habitat, ma ora tocca far la fatica vera. Ero già stato sulla via del sale, unica ed affascinante, ma mai partendo dal mare, il che dà a tutto un sapore di sfida. Mi immagino chi questa strada così impervia la percorreva da clandestino e per necessità, ma ancor più (sono sempre un ingegnere infrastrutturale) chi questa strada l’ha costruita, con nulla più che le mani, qualche utensile ed il servile lavoro dei muli. Quindi mi ripeto che, per quanto io pensi di star soffrendo sui pedali, sono a tutti gli effetti un privilegiato e percorro questa interminabile salita quasi con reverenza verso chi mi ha oggi permesso di godere di queste montagne in sella alla mia bici.
Muta il paesaggio costantemente: dai boschi di castagno, ai pascoli, ai boschi di conifere, fino alla totale assenza di alberi, quel classico quota duemila metri dove anche gli arbusti non hanno l’ardore di crescere, noi abbiamo la pretesa di salirci in bici, nonostante tutto, sfidando le rocce ed il vento. Oltre alla pendenza, infatti, ci si mette anche il fondo a farmi soffrire: un misto di roccia calcarea e sassi smossi che mette a dura prova la ricerca costante di una linea pulita su cui arrancare col mio ultimo rapporto perennemente innestato. Non sono avvezzo a gestire i movimenti della bici carica, mi sembra di dover guidare un tandem senza passeggero, che reagisce sempre con un gap temporale che mi mette costantemente in crisi. Di metter il piede giù non ne voglio sapere, non ora. Incontro un paio di e-biker fermi che mi guardano tra l’attonito ed il divertito, riesco a dirgli un candido: “scusate le imprecazioni!” ma mi rispondono con consapevolezza da locals che questo è esattamente il tratto giusto per buttarle fuori tutte, per cui fiato alle trombe!
Scollino infine l’ultimo tornante, è (quasi) fatta! Abbandono il tracciato principale per arrivare al rifugio, quasi non mi accorgo che di fatto pendenze e fondo non sono cambiati rispetto a prima, ma esser in vista dell’obiettivo mi galvanizza. Anche il dover percorrere qualche piccolo tratto a piedi non scalfisce il morale, tra poco finalmente vedrò i ragazzi dell’organizzazione, conoscerò il mio compagno di check e, non ultimo, sono perfettamente puntuale. E invece no! Arrivo come un ferroviere svizzero alle 19:15 e dopo pacche e sorrisi Andrea mi fa: “ma lo sai che i primi due son già passati!?”. Per la cronaca, il secondo, anche al traguardo, sarà il buon Federico Bassis del collettivo enough, una garanzia di qualità, che sta facendo letteralmente un’impresa fuori dal comune, almeno agli occhi di un mediocre ciclista amatoriale (non avventuriero) quale sono io.
In attesa dei prossimi concorrenti, mi prendo qualche tempo per ammirare dove sono. Un luogo fuori dal tempo, fatto di montagna aspra e asciutta. Tutto mi parla di viandanti, di pellegrini, di contrabbandieri, di chi ha percorso queste strade spinto da una necessità e da motivazioni enormi. Se chiudo gli occhi riesco quasi a sentire il rumore dei loro passi e l’ansimare dei loro respiri, affaticati dal carico, fisico e di pensieri, che si portavano sulla schiena. Arriva la notte, ed il cielo si popola di una quantità di stelle che raramente ho visto in precedenza, sembra quasi di poterle toccare tanto paiono vicine e luminose. Ma i nostri occhi sono puntati verso il sorgere di altre stelle: quelle dei fari dei concorrenti che, scollinando dalla via Marenca, spuntano come delle piccole nane bianche, ma che, invece di salire verso il cielo, costeggiano l’orizzonte percorrendo tutta la mulattiera di cresta, per un tempo che a noi osservatori pareva lunghissimo, ma che sicuramente sarà parso come una specie di sprint a ciascuno dei corridori che percorrevano quell’ultimo tratto di via.
Accoglierli è emozione pura, percepisci la loro fatica solo standogli accanto ed ascoltando gli scampoli di racconto di quei primi 300 chilometri, che comunque sono la parte più facile (precisato a ragion veduta dall’organizzatore Andrea).
La mattina dopo il rifugio è un brulicare di persone ed attività. Ciclisti, escursionisti, tutti si preparano di buon’ora a partire, tutti hanno già focalizzato il loro personale prossimo obiettivo. Ma tutto quel fervere di attività dura poco ed in breve tempo ci ritroviamo in due, soli, a governare l’intero rifugio e ad attendere tutti gli altri concorrenti. Il mio compagno di avventura, il sciur Benedetto B., sotto l’apparenza di un signore di media età dalla vita d’ufficio, è in realtà un vulcano di racconti ed aneddoti dei suoi tanti ed interminabili viaggi in bici (quattro volte la via di Santiago su quattro percorsi diversi, tanto per citare le più significative). Io sono incantato ad ascoltarlo, e nel mentre mi insegna pure a giocare a burraco! Ecco che la giornata che all’inizio mi appariva noiosa, scivola via come l’acqua di un ruscello alpino, e tra un racconto ed una scala completa di picche, è già ora che io prosegua nel mio percorso, se voglio arrivare in tempo per la cena al prossimo rifugio sulla via del sale. Nel pomeriggio di un’assolata domenica, in un puntino sulla mappa delle Alpi, le nostre strade si dividono, la mia, quella di Benedetto, quella degli organizzatori, quelle dei corridori. Qualcuno in anticipo sui suoi piani, qualcuno in ritardo ma che si sta godendo il panorama, qualcun altro che è sull’orlo di mollare ma non lo fa perché sa che poi la fatica ed il dolore passeranno e resterà solo un album di ricordi pazzeschi da poter sfogliare, di quanto erano da soli, al vento tra le montagne.