il dovere di scrivere il mio pensiero sul crollo del #PonteMorandi a #Genova

“sai, è crollato un ponte a Genova, meglio non andare da quelle parti stamattina…”

Così è iniziata per me la cronaca di una delle giornate professionalmente ed umanamente peggiori di sempre, non tanto per il mio lavoro in senso stretto (oddio, sarà poi da vedere) quanto per la mia stessa qualifica di ingegnere, per quello che ho studiato, e per la scienza in cui credo e che applico quasi quotidianamente, al meglio delle mie possibilità.

Partendo dall’inizio, il viadotto sul Polcevera a Genova è da sempre un’icona. Fino a ieri era un simbolo, ai miei occhi, assolutamente positivo di cosa era in grado di fare l’ingegneria italiana. Mi ricordo, da ragazzino, il passare su quel ponte con gli occhi all’insù mentre si andava al mare in Toscana. Per me, che ero un grande appassionato di Lego, l’idea che una mente potesse concepire e gli uomini costruire un’opera del genere era emozionante: un monolite a dimostrazione del potere dell’intelligenza dell’uomo. I tempi poi sono trascorsi e mi ritrovai al Politecnico di Torino, a rivedere quel ponte raffigurato all’interno di uno dei miei libri di studio, pagina 444. E non con una banale foto dal vero, ma con la foto del modello in scala, realizzato in laboratorio per studiarne il suo comportamento strutturale. Quella foto ha sempre catturato il mio interesse, si intravede un tecnico che sta regolando un comparatore meccanico, poi tutta una serie di strumenti analogici sul modello: ogni punto significativo del viadotto messo sotto esame. Erano i primi anni sessanta e l’intera struttura era da realizzarsi in calcestruzzo armato.

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Qui ora devo fare una piccola parentesi. Il calcestruzzo armato (che di seguito abbrevierò con cls) è da sempre croce e delizia dei tempi moderni. Osannato da ingegneri ed architetti (è di fatto una portentosa pietra liquida che azzera problemi di trasporto e sollevamento e offre una duttilità costruttiva incredibile) ma spesso odiato dal comune cittadino, il quale ha coniato il termine “cementificazione” come sinonimo di non rispetto del suolo e dell’urbanistica delle nostre antiche città. Come al solito la verità sta nel mezzo. Il cls in Italia è impiegato solo a partire dai primi del ‘900, la prima legislazione in materia è addirittura del 1939. Progettare un ponte nel 1960 significa basarsi su norme e conoscenze di trent’anni appena e, da non dimenticare, di mezzo ci son state due guerre mondiali. La pietra da costruzione, invece, si usa e si lavora da circa 2500 anni, una gran bella differenza non trovate?

L’ingegner Riccardo Morandi rimane, quindi, una delle menti più brillanti e visionarie dell’ingegneria italiana, che ha saputo usare al limite tutte le conoscenze a quel tempo note del cls. Non solo, ha intuito la possibilità di precomprimere internamente con cavi in acciaio le strutture in cls, di modo da quasi raddoppiarne le possibilità di lavoro, mettendo a punto quello che tutti ancora conoscono come “metodo Morandi”. Questo per dire che, nel 1960, Morandi era uno dei pochi al mondo, e di sicuro l’unico in Italia (assieme a Franco Levi), che poteva concepire un ponte così mirabile. Giusto per spezzare gli entusiasmi, trovatemi un ponte romano con anche solo la metà della luce di quello di Morandi (210/2=105m) poi ne riparliamo, ok?

Veniamo alla parte tecnica ora. Vorrei raccontare, a chi di solito passa in questo spazio web per tutt’altro motivo, in parole semplici quali sono le caratteristiche di questa struttura.

Il ponte sul Polcevera è classificabile come ponte strallato, quello che però lo rende di fatto unico è che, diversamente da come oggi comunemente avviene, non è caratterizzato da un fascio di stralli per lato che unisce pilone ed impalcato, ma da due soli stralli per parte, per di più costituiti da un’anima di acciaio armonico (ovvero molto più resistente alla trazione del comune acciaio da costruzione) rivestiti da calcestruzzo. Questa è stata fin da subito, dato che Morandi stesso lo scrisse circa dieci anni dopo l’inaugurazione, un’arma a doppio taglio. Il calcestruzzo attorno ai cavi, infatti, aveva infatti una sola funzione: proteggerli! Quello che praticamente allora non si conosceva è che il cls messo in trazione (e gli stralli lo sono sempre per definizione) non solo non apporta un tangibile contributo di resistenza ma, soprattutto, esso si va a micro fessurare in maniera diffusa. Questo non sarebbe un grande problema se non fosse che il ponte è inserito in un ambiente chimicamente molto aggressivo (sali marini uniti al canonico ambiente urbano) il quale ha, purtroppo sin da subito, contribuito a rendere evidente la delicatezza di questa soluzione costruttiva. Inoltre, queste fessure non sono facili da individuare e mappare, quindi alcune di esse possono esser profonde meno di un centimetro ed altre arrivare più in profondità fino ai cavi, senza che dall’esterno si capisca dove e come avviene il contatto tra acciaio degli stralli e aria anziché calcestruzzo (che di per sé essendo basico è comunque un ottimo agente protettivo per l’acciaio, che si corrode con ambienti acidi – fine della parentesi chimica).

Dato che ho usato il termine delicatezza, pongo l’aspetto su un altro concetto che all’epoca non era considerato: la struttura robusta. Questo non è da intendersi come nel linguaggio comune, ovvero surdimensionata, una struttura robusta, in ingegneria, è definibile tale se, a seguito del collasso di una sua parte per qualsivoglia motivo, essa è in grado di restare su nonostante le inevitabili grandissime deformazioni che subisce. Esempio semplice: un viadotto con un’unica lunga trave in acciaio con tante pile sotto a sorreggerla. Nel caso che (per incidente, attentato, degrado, difetto… insomma quel che volete voi) una delle pile crolli, la travata andrà a deformarsi moltissimo ma comunque permettendo sia l’evacuazione delle persone sul viadotto, sia evitando che tutto l’impalcato collassi su chi si trova al di sotto. Questo concetto di robustezza è stato sviluppato negli anni 80 e reso Legge da circa un ventennio. Il Polcevera, invece, con i suoi 3 piloni con stralli e le sue travi intermedie (dette Gerber) semplicemente appoggiate sopra, è quello che si definisce una struttura isostatica, ovvero una struttura che, all’eliminazione di un suo vincolo statico, si tramuta in un cinematismo, ovvero un qualcosa che va in movimento e, inevitabilmente, crolla. Specifico che, ad oggi, sono comunque centinaia i ponti isostatici ma questo non significa affatto che siano pericolosi o da sostituire. Semplicemente se si andasse a progettare un grande viadotto autostradale, oggi nessuno penserebbe più a farlo così ardito.

Altro aspetto, che ho letto qua e là sui giornali ma scritto o in modo troppo tecnico o troppo semplicistico, è quello delle deformazioni del cls a lungo termine. Questo aspetto non era proprio conosciuto negli anni 60 dato che, per strutture più modeste è quasi trascurabile. In pratica il cemento che ben sappiamo in fase di costruzione da liquido diventare solido, in realtà non diventa un solido perfetto, ma un materiale con una certa viscosità. Immaginate il classico barattolo di nutella: d’estate si spalma facilmente, d’inverno (o se messo in frigo) si riesce ancora a spalmare ma è molto molto più denso. Ecco il calcestruzzo, anche dopo la sua corretta maturazione, possiede ancora una piccola/piccolissima capacità di deformarsi in maniera plastica, come la creta. È per questo motivo che, dopo poco tempo dall’apertura al traffico, il viadotto di Morandi presentò subito palesemente queste deformazioni non previste. Se questo di per sé non è un pericolo, lo diventa quando, dovendo per forza correggere l’andamento del piano stradale per farlo tornare planare e senza gobbe, si procede con successive stese di asfalto fino a riottenere una superficie scorrevole piana. Risultato: si è andati ad appesantire la struttura con svariate tonnellate di carico non previsto, che insieme al vertiginoso aumento negli anni del traffico pesante (sia in numero di veicoli sia nel loro peso), ha fatto invecchiare molto precocemente una struttura pensata per durare molto di più. Sono certo però che la sua costruzione, a quell’epoca, fu fatta con scrupolo e rispetto del progetto concepito da Morandi, un’opera del genere in quell’ambiente e con quegli stress di carico non dura sessant’anni, e nemmeno trenta.

Ma quindi, tutti si chiedono, ha ceduto uno degli stralli? E perché? Ed in che punto?

Ecco, siccome di lavoro faccio l’ingegnere e non l’indovino, qui non posso far altro che tacere. Perché può esserci stata corrosione degli stralli non prevista e non vista; oppure corrosione da correnti elettriche vaganti generate dai macchinari di alcuni capannoni industriali sottostanti; oppure tensioni parassite negli stralli da fatica ciclica troppo elevata; oppure cedimento improvviso del vincolo fra strallo e soletta; oppure vibrazioni da vento e pioggia (qualcuno ha parlato di fulmine, sinceramente questa forse è l’unica cosa che tenderei ad escludere del tutto) che hanno portato a sollecitazioni negli stralli assolutamente anomale; oppure ci sono stati cedimenti improvvisi delle campate appoggiate sulle selle Gerber che hanno portato ad azioni flessionali dinamiche inaccettabili sul sistema strallato; oppure una combinazione delle cose elencate, oppure altro ancora. Solo analisi approfondite e complessive su: progetto eseguito, filmati disponibili, parti strutturali rimaste, materiali nello stato di vecchiaia attuale, condizioni di pioggia e di vento prima del crollo, magari prove su modelli, ecc… potranno far arrivare alle necessarie conclusioni che dovranno essere affidabili e che non dovranno lasciare dubbi. Nessuno, oggi, ha il diritto di avanzare ipotesi senza questi studi.

Poi entriamo più nello spinoso… Si discute ovunque di manutenzione, e quel ponte ne ha avuta tanta, e tanta ancora era programmata, o di ricostruzione. Credo che il ponte andasse rifatto trovando nel frattempo il percorso alternativo tanto osteggiato. Non si può ricostruire un ponte soggetto a quel traffico senza nel frattempo trovare un percorso alternativo. Ma soprattutto, cosa mai detta chiaramente, la società concessionaria per sua definizione gestisce un bene non suo, di conseguenza non ha altri strumenti oltre la manutenzione ordinaria e straordinaria per conservare un ponte nella sua efficienza. La scelta di costruire un nuovo ponte in nuova sede quindi non può che essere un’indicazione dello Stato che fa scelte per il bene del proprio Paese. Ricordo, fosse sfuggito, che è impensabile chiudere un’autostrada già solo per una settimana, figuriamoci un annetto tra demolizione e ricostruzione del viadotto sulla sua medesima impronta. Sul dove come e quando, gronda sì/no, colpa dei governi/partiti A-B-C non entro nemmeno, dato che non è questo il motivo che mi ha spinto a voler scrivere questo pezzo; dico solo che mi fa male sentir dire che non bisogna fare grandi opere perché di quelle avremo sempre più necessità per migliorare la nostra vita e per crescere come Paese.

​Resta il fatto che oggi, a tragedia avvenuta, con le cause ancora tutte da accertare e a dispetto di proclami tanto stupidi quanto destinati a colpire l’opinione pubblica, solo l’opera di demolizione della restante parte del viadotto è estremamente (e sottolineo, estremamente) complessa e delicata. Una demolizione del genere va innanzitutto progettata con molta cura, approvata da chi supervisiona le operazioni (quindi direi il Ministero dei Trasporti), e solo successivamente attuata con mezzi di sicuro piuttosto imponenti. Vi racconto, molto brevemente, che per demolire il ponte dell’A4 sulla ferrovia Torino-Milano (credo la commessa più bella a cui abbia mai lavorato) ci impiegammo sette mesi dal via dei lavori (quindi a progettazione avvenuta, tra l’altro a firma di un certo prof. Giuseppe Mancini) e con l’impiego di una gru prenotata con cinque mesi di anticipo e disponibile per sole 4 settimane, era agosto. Non finimmo certo sui tg nazionali per l’impresa compiuta, era una (quasi) normale attività di cantiere. Per cui diffidate da chi spara cifre e date senza sapere minimamente come si costruisce e come si demolisce un’opera di quella portata.

Per finire, cosa si poteva fare? Al giorno d’oggi esistono sistemi di controllo strutturale molto evoluti che permettono di tenere in stretta osservazione il comportamento di un viadotto ed evidenziarne in tempo reale il suo comportamento anomalo. Ecco, quel viadotto così simbolico, così affaticato, dove tutti almeno una volta siamo passati, certamente meritava un’installazione del genere, costosa, certo, ma non è solo una questione economica. Andava anche costituito un gruppo di tecnici in grado di leggere ed interpretare costantemente quei dati, altrimenti anche quel sofisticato sistema si sarebbe tramutato in una triste scatola nera e non in uno strumento per salvare vite umane. Aspetto anche questo, quindi, non banalizzabile come mi è capitato di leggere e assolutamente non da sminuire alla semplice equazione “pago = ottengo”. Quando ci sarà più cultura tecnica e meno previsioni economico/finanziarie per compiacere gli azionisti di turno questo, forse, diventerà davvero un Paese migliore.

8 commenti

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8 risposte a “il dovere di scrivere il mio pensiero sul crollo del #PonteMorandi a #Genova

  1. Matteo Nebiacolombo

    Ti seguo già da un po’ per amicizie comuni e ovviamente per le questioni ciclistiche e sapevo di questo post che prima o poi sarebbe uscito. Inanzitutto da quasi collega (sono laureando in Ing. Civile a Genova con una tesi sul cemento armato storico) ti faccio i complimenti per la semplicità delle parole che non è cosa da tutti, soprattutto tra tecnici, riuscire a spiegare certi concetti a chi non è del mestiere.
    Condivido pienamente i discorsi sulla parte tecnica, sul non tirare conclusioni affrettate sul collasso, soprattutto l’aspetto legato al monitoraggio strutturale che è il settore dove vorrei specializzarmi a livello lavorativo, settore tanto importante quanto talvolta reso in maniera semplicistica, quando in realtà è un settore complicatissimo e estremamente delicato per le numerose variabili in gioco.
    Oltre a quello non posso che condividere il discorso sull’evolversi della mentalità progettuale, o meglio delle leggi che l’hanno via via imposta, oltre al fatto che il concessionario ha poteri relativamente limitati a riguardo.
    Mi trovo però con alcune mie competenze storiche nate da pura curiosità e dagli studi per la tesi di laurea a voler segnalare alcune imprecisioni che riconosco che in pochi potrebbero fare, per la parte storica il cemento armato è diffusamente studiato già dai primi del ‘900 e il primo regolamento italiano per le sole opere pubbliche è del 1907 (per quanto fosse molto farraginoso per i canoni odierni), quello del 1939 è il primo regolamento omnicomprensivo come lo intendiamo oggi, figlio comunque di una conoscenza pregressa via via affinata.
    Sul precompresso poi vero che era tecnologia nuova, ma venne sviluppato proprio a partire dalle ristrettezze dell’autarchia in Italia e all’estero (vedasi Fressynet) e negli anni ’60 era già un materiale affermato con 20 anni di sperimentazione sulle spalle, con numerosi esponenti nazionali e internazionali, tra cui per esempio oltre a Morandi anche Silvano Zorzi e Nervi, oltre a tutti gli interpreti meno famosi, le cui opere però fanno ancora oggi il loro lavoro in maniera impeccabile senza mai aver ricevuto interventi di manutenzione tanto straordinaria come quelli del morandi a metà anni ’90 se non alle soglie dei loro 50 anni di esercizio.
    Riguardo invece alla durabilità e ai fenomeni di viscosità il discorso potrebbe andare avanti per giorni penso, vero che erano fenomeni ancora studiati, ma è anche vero che oggi sappiamo che tutti i fenomeni di creep nel cls tendono a manifestarsi in misura quanto più ampia, tanto più il tasso di lavoro è elevato, con l’estremo del creep secondario a deformazione infinita e la cosa potrebbe far riflettere sul progetto in se dietro a quel ponte.
    Premesso ciò su cui si potrebbe veramente parlare tanto da appasionato di ingegneria non posso fare a meno di citare che nella stessa liguria esistono strutture in precompresso o in altre tipologie all’epoca quasi sperimentali (come il misto acciaio – ca) che seppur inaugurate addirittura prima o contemporaneamente al ponte morandi sono tutt’ora in piena salute e non hanno mai subito interventi della caratura di quello del ponte morandi, se non giusto manutezioni alla sovrastruttura stradale o delle intonacature alla soglia dei 50 anni di vita (probabilmente per smorzare gli effetti della carbonatazione) e almeno così di primo impatto non presentano particolari problematiche di creep o viscosità che dir si voglia, il tutto con volumi di traffico e condizioni di esposizione quai perfettamente confrontabili con quelle del viadotto morandi, che quindi non esce particolarmente bene dal confronto sul fronte della durabilità, al pari molte altre sue opere.
    Vedasi per esempio tra le strutture liguri che citavo sulla sola A12 il viadotto Recco tra travate precompresse prefabbricate (inaug. 1965) o i viadotti di Zorzi sempre sulla A12 sui torrienti Veilino, Bisagno, Nervi e Sori, tutti inaugurati entro il 1967 con sistema dywidag con o senza travi gerber intermedie.
    Sperando avrai modo e pazienza di leggere questo commento ti ringrazio per l’approfondimento tecnico sempre interessante e gradito.

  2. Daniele

    Ciao, complimenti per l’articolo, da ingegnere elettronico (quindi assolutamente non competente) trovo l’articolo di facile comprensione.
    A mio parere il problema di fondo, italiano e non, e’ di origine sociale, economica e culturale.

    La faccio breve. Studiare per diventare ingegnere richiede sacrifici e, anche dopo la laurea, si deve continuare a studiare per rimanere al passo con lo sviluppo tecnologico. Tuttavia, a livello economico, gli ingegneri che hanno in ruolo prettamemte tecnico sono pagati relativamente poco e non reggono il confronto con avvocati, commercialisti, dottori in banca e finanza (potrei continuare).
    A supporto della mia tesi dico che molto spesso gli ingegneri progettisti, nel corso della carriera, mutano la loro forma e iniziano a fare “i commerciali” e a vendere quello che altri progettano. La ragione e’ semplice: vendere e parlare ad un comitato di finanziatori e’ piu’ facile e pu’ remunerativo, e spesso il risultato del tuo sforzo e’ interpretabile e non “violentemente oggettivo” come nell’ingegneria.
    Spesso, quando ci si trova ad avere per le mani un’idea molto buona o una soluzione tecnica all’avanguardia, la risposta e’ “non e’ compatibile con il budget”, ovvero, nel breve periodo non da’ un riscontro economico tale da giustificare lo sforzo iniziale richiesto: “la finanza vince sempre sull’ingegneria”.

    I sacrifici durante gli studi, le frustrazioni economiche e non, la scarsa considerazione che ha la societa’ per gli ingegneri riducono molto la disponibilita’ di neolaureati in ingegneria che vogliano percorrere una carriera marcatamente tecnica. Si entra cosi’ in un circolo vizioso il cui la cultura tecnica e’ sempre meno diffusa e meno considerata.

    Ringrazio chiunque abbia letto queste righe, la pagina che le ospita e chi vorra’ commentarle.

  3. Fabio

    Ciao, seguo abitualmente i tuoi post e mi sono imbattuto in questo off-topic. Trovo che la spiegazione che fornisci sia molto interessante e chiarissima anche per me che sono un perito impiantista. Anche l’intervento di Matteo fa riflettere.
    Che ne pensi dei laterizi in mezzo al cls visibili in più immagini che sono state diffuse? Non sono la causa del crollo, ma è normale una realizzazione del genere?

    • Se sono nei piloni, come al 99% penso, diciamo che è una soluzione un po’ rustica ma comunque efficace. Praticamente tutte le pile di una certa dimensione sono cave all’interno, quindi direi che la cosa è assolutamente normale e di certo non funzionale ad una debolezza strutturale

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